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 1977  dicembre 11 Domenica calendario

Torino-Juventus spettacolo di odio

Quando la città si sveglia trova nell’aria l’odore aspro dell’incendio di Mirafiori e non il profumo del derby. «È normale», mi dice con rassegnazione Vittorio Urbani, un capotifoso del Torino. Ieri il cadavere di un giovane era affiorato sulla riva della Dora. Stampa Sera aveva fatto i conti: 45esimo delitto dell’anno. Fra omicidi, sequestri, attentati la frequenza di atti criminali a Torino è altissima: un paio di casi a settimana nel 1977. Ecco perché a Torino, oggi, il derby non è una festa.
Suonano male persino gli insulti che i tifosi del Torino e della Juventus si scambiano sui muri di via Filadelfia: «Sì, sì, è così, Juve merda e tbc», «Ultras bastardi al cimitero, il potere è bianconero». Dalle bombolette di vernice spray non escono allegri campanilismi ma spruzzi di violenza. Questa notte una settantina di torinesi e juventini si sono azzuffati sotto i portici della stazione mobilitando polizia e autoambulanze. Ma cos’è diventato il derby? «Bisogna stare attenti», mi dice il comandante di una volante, «perché questo non è più tifo, è diventato odio. Non tanto verso le fazioni opposte quanto verso la città».
Me lo confermano i «fedelissimi» del Torino di via Filadelfia: «Io odio la Juventus», si infiamma un tale con barba e sciarpa granata, «come tutti i veri tifosi del «Toro». Odio quella squadra dall’aria aristocratica, odio Agnelli che la protegge, odio i suoi giocatori che si sentono dei principini». Chiedo: Ma vale la pena con tutto quello che succede a Torino scaldarsi tanto per una partita di calcio? Le risposte sono contrastanti. Il signore sanguigno con la barba risponde: «Certo che vale la pena, il derby non c’entra niente con il resto».
Dall’altra sponda, quella juventina, ricevo un’analisi ancora diversa ma egualmente sintomatica. Dice Piercarlo Perruquet, capo tifoso riconosciuto delle legioni bianconere: «Lo stadio serve proprio per dimenticare le angosce della settimana. Novanta minuti per sgombrare la mente da preoccupazioni sempre più gravi».
Sembra più cosciente lui del vento di tempesta che soffia su Torino che non i protagonisti del derby, i giocatori, almeno quelli più anziani. Per Dino Zoff, portiere della Juventus, 35 anni, domani alla sua quattrocentesima partita in serie A, «questo derby di calcio deve fare la sua vita, badare a giocare bene e basta». Vivere a Torino non le crea alcun disagio? «Cerco di ignorare il clima di violenza che mi circonda. Non c’è altra soluzione. Altrimenti andrei a fare l’eremita su una montagna. Sono un professionista, faccio il calciatore...».
Ma cosa vuol dire fare il calciatore, aprire gli occhi solo quando si entra nel campo di gioco? Sembra questa, in effetti, una mentalità diffusa. Josè Altafini, che vive a Torino ma non gioca più, afferma che «un giocatore deve concentrarsi sulla partita e basta, non c’è posto per niente altro, soprattutto per la politica». E aggiunge «Non è vero che a Torino si viva nel terrore. Certo bisogna evitare certe cose, come girare di notte da soli, ma sono imposizioni che trovi ovunque. A New York, per esempio, è consigliabile non attraversare il Central Park o andare in giro per Harlem». Altafini conclude addirittura che lo sport è la medicina migliore contro i «fattacci neri» e che l’Italia è un paese fortunato perché nello sport riesce a dimenticare. Ma è vero? Lo è sicuramente per quanto riguarda i giocatori.
Dice Romolo Bizzotto, vice allenatore della Juventus: «Pur rendendosi conto di ciò che succede in città, i miei ragazzi non pensano di essere esposti in prima persona. Anche perché seguono i nostri consigli: non rientrate a casa troppo tardi, non vi immischiate».
Non tutti, però, sono disposti a vivere sotto una campana di cristallo. I giovani, soprattutto, Pietro Paolo Virdis, venti anni, approdato la scorsa estate alla Juventus confessa che questa «è una città che ti sconquassa». E Cesare Butti, del Torino, venticinque anni, politicamente «di sinistra, ma moderato» sostiene che «questa favola del calciatore asettico» lo infastidisce non poco: «Se dovessi vivere di solo calcio mi sentirei una nullità. Eppure con i miei compagni non riesco a parlare d’altro. Per questo cerco di circondarmi di compagnie diverse, soprattutto di persone che non mi valutino solo per la mia etichetta di calciatore. Torino? Ha un clima opprimente che vivo e subisco ogni giorno. L’origine della sua violenza? Le industrie che la soffocano, l’urbanizzazione aumentata in modo spropositato in relazione alla ricettività, la mancanza di strutture sociali. I responsabili? La classe politica al governo».
C’è dunque chi al derby si accosta con rabbia agonistica, chi con un certo distacco, chi per «dimenticare». Ma nessuno parla di un giorno di festa. Domani lo stadio sarà comunque pieno «perché essere divisi fra due squadre è una delle poche cose che i torinesi ancora si concedono» dice Michele Torre, direttore della Gazzetta del Popolo. Ma pieno di chi? Gente che faticherà a trasferire sul Torino e sulla Juventus i pensieri occupati dal cadavere affiorato dalla Dora o dall’incendio doloso di Mirafiori, ultima staffetta della violenza che assedia la città. Ammette Giampaolo Ormezzano, direttore del quotidiano sportivo torinese: «Viviamo un inverno tra i più allucinanti, persino noi giornalisti specializzati abbiamo pudore a drammatizzare una partita di calcio» (1).
Note: (1) Il derby fra Torino e Juventus finì poi 0 a 0.