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 2017  agosto 04 Venerdì calendario

«Il mio agosto sui cavalcavia a fare graffiti mascherato». Il writer «Manu Invisible», classe 1990, si racconta tra opere abusive e su commissione da Milano a Londra: «Amo colorare i “non luoghi”»

Le sue “tag”, le firme, le conoscono praticamente tutti in città. Il suo volto, invece, no. Tanto che in molti lo etichettano come il “Banksy italiano”. Ma c’è una grossa differenza: il graffitaro di Bristol, che lascia i suoi lavori in giro per il mondo dalla Palestina a New York, da Calais a Napoli da decenni gioca a guardia e ladri e non c’è stato verso di identificarlo; Manu Invisible al contrario è stato denunciato, ha subito diversi processi fino a che la Corte di Cassazione lo ha prosciolto definitivamente da ogni accusa sostenendo che i suoi graffiti non sono imbrattamento, ma arte. 
Classe 1990, cagliaritano d’origine ma ormai residente tra un viaggio e l’altro a Milano, con i suoi oltre 15 anni di street art, Manu Invisible è reputato uno dei più significativi writer italiani tanto da essere scelto dall’agenzia inglese Global Street Art per un intervento a Camden Town, Londra, per celebrare l’uscita ufficiale dell’Inghilterra dall’Unione Europea. Su un muro di 90metri quadri ha dipinto Influence: un’opera che rappresenta la condizione politica dell’Europa che in questo periodo di grandi cambiamenti è appunto influenzata in modo incessante. 
Con il suo vestito nero sporco di pittura e la maschera nero lucido dalle forme taglienti ispirata alla geometria e alla notte, non si ferma mai. È appena tornato da Srebrenica dove ha partecipato al progetto City of hope che vuole ridare vita alla città che ha superato il dramma della guerra ma che ancora ne conserva le tracce. Lì ha realizzato due imponenti murales: Dialogo e Consapevolezza, una scritta di 22 metri metà in cirillico e metà in latino perché lì si usano entrambi gli alfabeti. All’interno delle lettere è rappresentato il fiume Reka Drina che unisce la Bosnia Erzegovina alla Serbia. L’opera è stata volutamente realizzata davanti alla scuola elementare di Srebrenica, simbolo di speranza e avvenire, attraverso le generazioni future. 
Tutte opere legali. Come quelle che si possono incontrare passeggiando per le vie di Milano. Suoi sono i graffiti sulle barriere antiterrorismo di cemento in piazza Duomo commissionati dal Comune di Milano, suo è l’intervento urbano ai piedi del celebre Bosco Verticale dell’architetto Boeri, richiesto da Palazzo Marino. E ancora: sua è l’opera sul cavalcavia a Trezzano sul Naviglio Art. 639 reato di espressione realizzato un anno dopo la sentenza della Cassazione. 
«La vittoria in Corte di Cassazione ha creato un precedente importante per la street art in Italia, prima di me altri artisti hanno avuto problemi con la legge, riscontrando problemi nell’essere assolti e tanto meno nel riconoscimento di questa singolare forma d’arte», ci ha spiegato Manu Invisible. «Per me è stato un onore rappresentare la scena artistica italiana in questa forte vittoria, perché ha dato un valore aggiunto a tutto quello che creo. Prima le istituzioni mi guardavano con occhio scettico, adesso vengo chiamato per realizzare opere per università e fondazioni, in un qualche modo è stata una prova che mi ha forgiato rendendomi più forte. Io ho sempre avuto la coscienza a posto per quello che faccio, le mie intenzioni son sempre state molto chiare e fare graffiti o street art (chiamatela come volete) per me, oltre che una necessità, è una missione. Quando morirò dovranno rimanere le mie opere, ciò che ho fatto in vita». 
Che significa per un graffitaro lavorare per il Comune di Milano? 
«È stato un bel progetto, il mio ruolo è stato quello di alleviare il senso di paura e smarrimento a causa del terrorismo nel periodo natalizio. Sono riuscito a conquistare delle tappe di Milano che avevo sempre pensato di decorare. Lavorare per Palazzo Marino è stata un’ottima vicenda che va elencata tra le mie esperienze più importanti». 
La legalizzazione dei graffiti mette un freno all’arte dei writer? Deporre le armi della guerriglia, per vestire gli abiti delle star, è un compromesso al ribasso per gli artisti urbani? 
«Bella domanda! Essendo a cavallo tra le due realtà, writing e street art, posso solo dire che risultano due scuole nettamente diverse. Il writing non si promette il successo ed è un movimento che rimane puro e romantico, con tutto quello che ne concerne. La street art, invece viene sedotta molto facilmente dai lavori istituzionali, dal successo e dalle logiche legali e imprenditoriali. Io personalmente seguo entrambi i filoni. Il mio nome è conosciuto per essere scritto in maniera abusiva in giro per le città, come le mie opere d’arte, ma nonostante rispetto i miei colleghi che si dedicano solo al writing senza committenti. Per questo tipo di azione io intervengo principalmente in quelli che son considerati in ambito architettonico “non luoghi”: cavalcavia, strade a scorrimento veloce, ponti in cemento armato e arredo urbano fatiscente. Ritengo oltraggio civico il cemento fine a se stesso, considero invece gesto di presenza umana e civiltà graffiti rupestri, geroglifici e messaggi di ogni genere legati al nostro passato, così come i più moderni graffiti e messaggi urbani». 
Il binomio arte-impegno politico le appartiene? 
«Fare arte per fortuna non implica ancora dover fare politica. Sono salvo». 
Dal documentario Scripta manent sulla sua attività appare evidente che non c’è alcuna improvvisazione. Tutto studiato a tavolino. Quanto lavoro c’è dietro un suo graffito? 
«Una mia opera in media necessita di circa 30 ore di lavoro, tra concepimento, fase logistica e realizzazione». 
Come hai iniziato? 
«Ho iniziato influenzato dal mondo dei graffiti anni ’90, suggestionato dai veri valori del movimento che erano la cultura e il rispetto per chi la praticava. Il mio primissimo lavoro risale a quando avevo 9 anni, ma quello più remoto degno di nota, l’ho realizzato nel 2002». 
Il prossimo murale? 
«Saranno diversi, ad agosto realizzerò tre opere che ingloberanno tre interi cavalcavia, con una tematica legata ad Antonio Gramsci. Il frutto di questa iniziativa è la rete Nino dove sei? strutturata da Raffaella e Bruno Venturi». 
Ultima domanda: perché indossa la maschera? Si tratta di un vezzo o di una reale necessità? 
«La maschera è una necessità molto importante per me, perché divide nettamente vita artistica e vita privata: fondamentale una volta che si diventa un personaggio pubblico per non perdere la propria intimità».