Pagina99, 28 luglio 2017
Con i ragazzini di Mosul addestrati al martirio
MOSUL. Abudi ha undici anni, il sorriso di bambino e gli occhi di un adulto, le mani rese ruvide dal lavoro sono il segno della sua infanzia spezzata.
Abudi viveva nel quartiere di al Jadida, a ovest di Mosul, dove suo padre aveva un’officina meccanica. Quando si é rifiutato di lavorare per Isis, i miliziani di Al Baghdadi l’hanno picchiato fino a renderlo invalido, non ci vede più dall’occhio sinistro e non può camminare. Oggi la famiglia di Abudi vive in una casa spoglia di Mosul est con altre dieci persone, non hanno soldi per comprare nemmeno un chilo di farina, la cucina é vuota e per gli uomini non ci sono possibilità di guadagnarsi da vivere.
Sono le due del pomeriggio quando Abudi apre la porta senza aver mangiato neppure un pezzo di pane dal giorno prima. Per sfamare il padre, la madre e i due fratelli più piccoli, Abudi prova a chiedere lavoro alle botteghe del quartiere, prova a pulire a terra e servire ai tavoli. La paga dell’ultimo lavoro, in un ristorante di Mosul est, era duemila dinari iracheni al giorno. Un euro e mezzo.
Abudi sa di essere il capofamiglia ora che la guerra è finita: «Sono il più grande e so che devo badare a tutti. Spetta a me lavorare e spetta a me bussare alle porte dei vicini chiedendo pochi dinari per comprare almeno il pane, siamo scappati da Mosul ovest sperando di trovare pace, ma non c’è ancora pace qui per noi», dice.
Quando la guerra ha toccato il suo quartiere, Abudi ha perso quattro dei suoi amici più cari uccisi dai colpi di mortaio: «In poco tempo nel quartiere non è rimasto più nulla da mangiare, non c’era latte per mio fratello piccolo, non c’era cibo. Abbiamo finito tutti i soldi che ci restavano comprando il cibo al mercato nero. Isis vendeva l’erba dei campi nelle buste a IO mila dinari iracheni l’una. Abbiamo mangiato solo erba per settimane».
Cinquecentomila bambini
Abudi è uno dei cinquecentomila bambini cresciuti per tre anni a Mosul sotto il controllo dell’Isis. Quando i pick up con le bandiere nere hanno sfilato in città aveva otto anni e il suo primo ricordo è l’entusiasmo dei suoi vicini e il terrore negli occhi di suo padre. «Tutti nel nostro quartiere applaudivano ai bordi delle strade, ripetevano che quegli uomini avrebbero portato sicurezza e dignità alla città di Mosul, che avrebbero portato soldi per tutti i giovani che non avevano lavoro». E i soldi all’inizio c’erano per tutti e in abbondanza, i più giovani erano reclutati con beni materiali assai più che con motivazioni ideologiche o religiose: «Ai bambini davano dolci e i pochi giochi non considerati proibiti, e ai giovani automobili e motociclette, e poi le mogli».
“P” per pallottola, “M” per mortaio
Lo zio di Abudi si è unito all’Isis per denaro, i miliziani gli pagavano lo stipendio regolarmente, gli hanno promesso una sposa e organizzato la festa di matrimonio. Gli stessi miliziani hanno ordinato che sua madre venisse frustata in pubblico perché non indossava i guanti per aprire la porta di casa. «Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le donne di Al Hasba (la polizia islamica femminile, ndr) sono arrivate in casa, hanno costretto mia madre a seguirle in una piazza e l’hanno frustata trenta volte. Mia madre le implorava e chiedeva scusa, ripeteva piangendo che non l’avrebbe fatto mai più, ma non hanno avuto pietà».
Abudi, come i suoi coetanei, è stato costretto ad assistere ad esecuzioni pubbliche.
Ha visto impiccare tre persone in piazza, lanciare ragazzi accusati di stregoneria dall’ultimo piano dei palazzi. Ha visto quei cadaveri lasciati appesi o in strada per giorni, come avvertimento per tutti coloro che avrebbero voluto infrangere le rigide regole dello Stato Islamico. Ha visto uccidere – sgozzato – il suo vicino di casa perché aveva usato un cellulare ed è stato accusato di essere una spia dei peshmerga.
Abudi era solo quel giorno in piazza, non c’era suo padre, non cerano i suoi fratelli. Racconta di aver chiuso gli occhi dopo aver visto cadere a terra la testa del suo vicino ed essere scappato via, piangendo per ore. Abudi non va a scuola da due anni, da quando gli insegnanti di Mosul che non volevano piegarsi ai nuovi programmi imposti dall’Isis sono stati cacciati: «Insegnavano l’alfabeto usando esempi come: P per pallottola, M per mortaio, C per cannone e le addizioni erano la somma delle armi, delle autobombe o degli infedeli morti», dice il bambino, seduto su un materasso sporco in una stanza disadorna e caldissima di casa sua.
Sua madre lo osserva, commossa, tiene in braccio Ibrahim, il figlio acquisito. «Quando siamo scappati da al Jadida abbiamo visto in strada Ibrahim, il figlio dei nostri vicini, era solo, piangeva disperatamente indicando le macerie di casa sua. C’erano sepolti suo padre, sua madre e sua sorella, tutti morti. L’abbiamo preso e portato via con noi, non potevamo lasciarlo lì ma non possiamo sfamarlo e non possiamo mandarlo a scuola».
Ibrahim non sorride mai. Si sveglia di notte gridando. Cerca sua madre. Quando sente il rumore di un aereo si tappale orecchie con le mani e ripete che ha paura di morire. Ibrahim è uno delle migliaia di orfani della guerra di Mosul. Orfani di genitori uccisi dai colpi di artiglieria, dalle bombe, dai cecchini. Bambini senza genitori e bambini abbandonati. Figli di civili o figli di Isis.
Durante gli ultimi giorni della guerra, i soldati dell’esercito iracheno hanno estratto vivo dalle macerie un bambino, avrà avuto sei anni, apparentemente di nazionalità cecena, dunque figlio di un foreign fìghter. Quando ha visto la bandiera irachena sul mezzo blindato ha detto: «E la bandiera degli infedeli».
I giorni della vendetta
Il destino delle famiglie di Isis è il problema cruciale del dopoguerra a Mosul. In un report della scorsa settimana, Human Right Watch ha denunciato l’istituzione di «campi di riabilitazione» per le famiglie dell’Isis dove centinaia di persone sono trattenute contro la loro volontà. «Le autorità irachene non dovrebbero punire intere famiglie a causa delle azioni dei loro parenti», ha dichiarato Lama Fakih, vice direttore di Human Rights Watch per il Medio Oriente: «Questi atti abusivi sono crimini di guerra e stanno sabotando gli sforzi per promuovere la riconciliazione nelle aree riconquistate».
Il cammino verso la riconciliazione, però, è pieno di ostacoli. Gli episodi di ritorsione e intimidazioni contro le famiglie di chi ha giurato fedeltà al Califfato sono all’ordine del giorno. A giugno una circolare del governatorato di Mosul invitava le famiglie di Isis a lasciare la città entro un mese pena la morte, lo stesso a luglio a Qayyara – villaggio a sud di Mosul – dove i cittadini hanno stilato una lista di 67 famiglie collegate a Isis e assaltato alcune delle loro abitazioni, minacciando di morte chiunque fosse rimasto, così pure ad Hamam al Alil dove i parenti dei miliziani sono stati minacciati casa per casa.
Asma che vive nascosta
Asma vive nascosta ad Hamam al Alil, non esce mai di casa. Ha paura.Suo figlio Faisal ha giurato fedeltà ad Al i Baghdadi a undici anni, ha cambiato nome e imparato a combattere. Da quando è state reclutato sua madre non sa più niente di lui: «Probabilmente è morto in guerra – dice – qualcuno pensa che sia stato ucciso da un bombardamento». Asma non apre la porta neppure per comprare un pezzo di pane da quando casa sua è stata assaltata: «Ci hanno avvertito: se restate qui siete morti. Abbiamo perso un figlio, rovinato da questi assassini e ora non possiamo restare a casa nostra perché siamo macchiati per sempre».
Quando è stato reclutato, Faisal non sapeva leggere né scrivere, era uno dei tantissimi ìt ragazzini analfabeti delle zone povere intorbi no Mosul, figli di famiglie indigenti, profon)damente influenzabili: gli obiettivi perfetti tdella propaganda dello Stato Islamico, e L’indottrinamento dei bambini e degli a adolescenti è uno dei punti cardine del progetto di costruzione dello Stato dell’Isis, che al suo apice – tra la metà del 2014 e il 2015 – contava un territorio vasto un terzo della Siria e un terzo dell’Iraq per una popolazione e di circa 9 milioni di civili.
Il gruppo fondamentalista ha costretto», tutte le scuole a cambiare libri di testo e proe grammi, abolito materie come la letteratura i e imposto una versione rielaborata della sto; ria. Ha istituito campi di addestramento dove erano indirizzati i bambini più meritevoli, > talvolta anche quelli appartenenti a minoranze religiose, come gli yazidi.
Aiman, obbligato a combattere
Aiman ha diciassette anni, ne aveva quattordici quando il suo villaggio in Sinjar è stat to occupato dall’Isis, gli yazidi che lo abitavano sono stati fatti prigionieri, le donne costrette in schiavitù, molti giovani come lui costretti a imparare a combattere.
Oggi Aiman vive in un campo profughi di Dohuk.
«Io e mio cugino siamo stati prima costretti a frequentare lezioni religiose per mesi, molte ore al giorno per imparare la loro interpretazione del Corano e dell’Islam, poi siamo stati trasferiti in un campo di addestramento a Tal Afar. Ci insegnavano a usare kalashnikov e a costruire cinture esplosive. Un giorno mi hanno detto: Aiman, quando premerai il pulsante della cintura esplosiva per uccidere i kafir, gli infedeli, troverai te stesso, in quel momento sarai martire per Allah».
Aiman racconta di aver avuto incubi per settimane, i loro figli – i figli di Isis – venivano accompagnati dai padri nelle missioni suicide. Padri orgogliosi di sacrificarli ad Allah.
«Ma non lo chiamano suicidio – continua Aiman – le chiamano missioni di martirio. Tutto era morte intorno a noi, ogni cosa parlava di morte. Un giorno un ragazzo ha provato a chiedere: Perché ? Voleva sapere perché dovessimo desiderare il martirio ed è stato preso a sassate fino a morire».
Aiman è riuscito a scappare, ma i meno fortunati di lui sono stati spediti a combattere sulle prime linee del fronte, anche bambini di otto, nove anni. «I loro figli non sono bambini, per loro l’infanzia non esiste», dice ancora Aiman.
Futuri soldati dell’Isis
I figli dell’Isis, nelle intenzioni dei padri, sono i soldati del domani, trattati da adulti perché devono ereditare il più difficile dei compiti: portare il Califfato nel futuro, proteggere le idee dello Stato Islamico, proseguire la missione dei padri e uccidere i kafir di tutto il mondo.
Ahmed è un figlio di Isis, ha 14 anni.
Suo padre l’ha costretto a giurare fedeltà ad al Baghdadi nella moschea al Nouri. Ahmed lavorava insieme a lui: costruivano autobombe.
Quando suo padre è morto – a febbraio – ucciso da un bombardamento, lui e sua madre sono scappati via, in un campo profughi, vivono sperando di non essere riconosciuti da nessuno. «Un giorno ho provato a chiedere a mio padre perché costruissimo qualcosa che doveva uccidere le persone. Lui mi ha detto che avremmo ucciso i soldati, che i soldati erano i nostri nemici, che i soldati erano apostati. Ma io sapevo che uccidevamo uomini, donnu, bambini come me. Io volevo solo scappare via».
Oggi Ahmed vive in una tenda, sperando di non essere arrestato. Ha perdonato – dice – perché «solo Allah può punire e lui era pur sempre mio padre e io so che in fondo non era cattivo».