LeScienze, 1 agosto 2017
La grande eclissi di sole del 2017
Adoro stare all’aperto durante le eclissi solari e godermi l’universo che sembra rabbuiarsi tutt’attomo a me mentre le mie osservazioni vanno avanti. Un tempo suggerivo di eostruirsi un proiettore con un forellino come obiettivo o addirittura di usare una normale grattugia per osservare questi eventi. Ma negli ultimi anni la disponibilità di filtri appositi per le eclissi a un dollaro o giù di lì ha reso obsoleti quei consigli. Adesso chiunque può guardare il Sole attraverso un filtro di questo tipo, a partire da più di un’ora prima della totalità, e vedere il morso che sembra allargarsi sul disco solare.
Negli ultimi minuti prima della totalità, noterete che la qualità della luce circostante cambia e diventa inquietante. Le ombre si affinano perché sono prodotte da una sottile mezzaluna di Sole anziché dal disco pieno. L’aria si raffredda e si solleva il vento. Sul suolo possono passare rapidamente fasce di ombra.
Quando manca solo qualche secondo e la Luna sta per occultare completamente il Sole, dalle valli sul bordo della Luna passano singoli raggi di luce, e del Sole rimane solo un arco di perle splendenti, che svaniscono via via, fin quando ne rimane solo una, così luminosa che sembra un diamante su un anello, magari con un bordo stretto e rossastro ai lati e una banda più chiara attorno alla sagoma della luna. Poi scompare anche il diamante. A quel punto possiamo abbassare il filtro, e faremmo bene a farlo, per guardare direttamente ciò che rimane del Sole: una regione della sua atmosfera che solitamente è nascosta dal cielo azzurro.
È la corona solare interna e media, quei pennacchi di plasma che volano via dalla superficie del Sole. E luminosa circa come la Luna piena cioè, normalmente, un milione di volte più fioca del Sole e altrettanto sicura da guardare a occhio nudo. Prima vedremo la corona come l’anello che portava il diamante, dopo la ammireremo in tutta la sua gloria: un alone bianco perlaceo di gas che arriva a un’estensione pari a varie volte il raggio del Sole. Se saremo fortunati, ci potrà capitare di vedere una potente eruzione di plasma verso lo spazio interplanetario.
Ma che senso ha che io cerchi di descrivere a parole un’eclissi totale di Sole? È uno spettacolo così commovente e meraviglioso che nessuno l’ha mai descritto in modo adeguato. Mi succede di continuo che qualcuno venga da me, dopo un’eclissi, a dirmi che sanno bene che avevo cercato di trasmettere l’emozione che avrebbero provato, ma che non ci ero andato nemmeno vicino. Televisori e monitor dei computer non le rendono giustizia. Le foto appiattiscono la gamma dinamica e perdono il contrasto abbagliante. Trovarsi all’aria aperta mentre l’universo apparentemente si oscura, prima gradualmente e poi di un fattore 10.000 in pochi secondi, è sconcertante. Rievoca le paure primordiali che il Sole venga portato via.
Ho visto la mia prima eclissi durante il primo anno di università, e mi ha affascinato. Da allora sono stato in tutto il mondo per assistere a 65 eclissi solari (di cui 33 totali). Non vedo l’ora di osservare la numero 66 il 21 agosto, quando il percorso della totalità attraverserà gli Stati Uniti dalla costa occidentale a quella orientale per la prima volta dal 1918.
E non seguo questi eventi solo per il piacere di farlo: le eclissi offrono agli scienziati che le osservano condizioni che le normali osservazioni non possono replicare. Sebbene si possano dotare i telescopi terrestri di un piccolo cono o disco metallico per eliminare il Sole a piacimento, ottenendo un cosiddetto coronografo, le loro eclissi artificiali non sono all’altezza di quelle reali. Le molecole dell’aria lasciano il cielo troppo azzurro e luminoso, anche da siti di montagna alti e incontaminati. E i coronografi spaziali devono coprire non solo il disco solare che osserviamo quotidianamente, ma una larga banda tutt’intomo, altrimenti all’interno dello strumento si diffonde troppa luce. Inoltre, ogni telescopio ha una risoluzione limitata e «spalma» un po’ la luce che vi entra. Le eclissi naturali non hanno questo problema, perché il «telescopio» è composto, di fatto, dall’intero sistema Terra-Luna, con una risoluzione eccezionalmente elevata. Uniamo le nostre osservazioni dal suolo con quelle dai veicoli spaziali per ottenere un’immagine completa del Sole. Solo all’ombra fresca della Luna riusciamo a osservare la luce visibile emessa dalla parte interna e mediana della corona.
È in queste distese interne che cerchiamo una risposta a uno dei più insidiosi enigmi dell’astrofisica: perché la temperatura del Sole aumenta allontanandosi dalla sua superficie? Di solito le cose si raffreddano mentre si allontanano da un oggetto caldo, come un falò o un termosifone. All’interno del Sole la temperatura parte da 15 milioni di gradi Celsius al centro e scende uniformemente via via che si va verso l’esterno, fino ai 5500 della fotosfera solare, la superficie che emette la luce del Sole nello spazio. Ma a quel punto la tendenza si inverte. Il tenue gas appena sopra la superficie visibile risale fino a oltre 10.000 gradi, e poi balza bruscamente a milioni di gradi. Gli scienziati si chiedono tuttora come accada.
Abbiamo fatto enormi passi avanti, riguardo sia alle osservazioni sia alla teoria, da quando per la prima volta ho descritto gli aspetti scientifici della corona solare su «Scientific American» nel 1973 [su «Le Scienze» nel 1974, N.d.R.] Adesso una fiotta di sonde monitora il Sole nelle frequenze dell’ultravioletto e dei raggi X, che non possiamo vedere dalla Terra, e sono stati sviluppati strumenti sofisticati per collegare tutte le osservazioni. Abbiamo un’idea generale per la soluzione del problema del riscaldamento della corona ha a che fare con il campo magnetico del Sole ma i dettagli rimangono poco chiari. E questo non è certo l’unico problema che ci presenta la corona. Le osservazioni durante l’eclissi imminente dovrebbero aiutare ad affrontare queste domande.
Il paesaggio solare
Gli scienziati sanno già molto della corona solare. Da un certo punto di vista sembra un gigantesco porcospino. Si prolunga in sottili filamenti, alcuni dei quali sono più larghi alla base e formano una guglia a quote elevate, come elmi a punta. La forma che assumono varia con il ciclo delle macchie solari.
Quando le macchie proliferano, come negli anni dal 2012 al 2014, questi filamenti emergono anche da latitudini che arrivano ai 30 gradi nord e sud, cosicché la corona appare a tutto tondo. Durante i periodi di minimo delle macchie, come quello in cui ci troviamo, la corona è più piatta e si osservano solo filamenti limitati alle regioni più vicine all’equatore del Sole e pennacchi coronali, sottili e dritti, che appaiono ai poli. Dalle regioni vuote comprese tra i filamenti sfugge alLestcmo, verso il sistema solare, un flusso di particelle cariche detto vento solare, che procede a centinaia di chilometri al secondo, anche il doppio della velocità del vento solare che esce da altre regioni. Alla base della corona, ancorati alla fotosfera solare, ci sono piccoli anelli di gas, forse costituiti da fili multipli troppo sottili perché le nostre osservazioni attuali possano distinguerli. Questi anelli coronali possono pulsare, con onde che li percorrono o li attraversano avanti e indietro.
Tutti questi delicati dettagli sono prodotti dal campo magnetico solare, generato dal gas ribollente nelle profondità del Sole. Ciò che però non si sa è come di preciso la dinamica del campo magnetico sia responsabile della temperatura sorprendentemente alta della corona. Sappiamo che il responsabile è il campo magnetico, perché i fenomeni magnetici non sono soggetti alle stesse restrizioni termodinamiche che impedirebbero all’energia di fluire per conduzione termica dalla superficie calda alla corona ancora più calda.
Esplosioni oppure onde?
Ci sono due ipotesi principali sul modo in cui il campo magnetico del Sole possa trasferire parte della propria energia nella corona per riscaldarla. Una possibilità è che avvenga attraverso piccolissimi brillamenti solari. Queste esplosioni si verificano quando il campo magnetico subisce una brusca variazione della sua configurazione, nel giro di pochi secondi. Se seguiamo la struttura del campo alla superficie del Sole osserviamo che occasionalmente le polarità nord e sud nelle regioni delle macchie solari si ritrovano confuse. Questa situazione sottopone il campo magnetico a enormi sollecitazioni e, per alleviarle, le due polarità si collegano aH’improvviso in modo nuovo, emettendo quantità immani di energia immagazzinata. Queste riconnessioni riscaldano localmente la corona fino a 10 milioni di gradi e più, emettono un lampo luminosissimo e talvolta espellono plasma nello spazio. I brillamenti possono danneggiare i satelliti in orbita attorno alla Terra e potrebbero costituire un grave rischio per gli astronauti diretti su Marte.
I brillamenti che osserviamo sono troppo intermittenti per spiegare la temperatura di base dell’atmosfera solare, ma è possibile che esplosioni troppo piccole per essere individuate singolarmente investano la corona? James Klimchuk, del Goddard Space Flight Center della NASA, sostiene con forza l’idea di questi nanobrillamenti. Milioni di piccole esplosioni in corso nella corona ogni secondo, ognuna con un miliardesimo dell’energia di un grande brillamento, la manterrebbero a temperatura elevatissima.
Il principale insieme di teorie in competizione è quello secondo cui sarebbero le oscillazioni del campo magnetico a riscaldare la corona. Gli anelli vibranti della parte inferiore della corona scuoterebbero il gas circostante, aumentandone la temperatura. Queste onde potrebbero assumere varie forme. Gli scienziati hanno escluso le onde sonore, trasportate dalla pressione del gas, ma le onde di Alfvén, guidate dal magnetismo, o un ibrido delle due, le cosiddette onde magnetoacustiche, sarebbero possibili. Onde magnetiche di qualche tipo potrebbero essere sufficienti per aumentare la temperatura coronale fino a milioni di gradi?
In linea di principio dovrebbe essere possibile distinguere tra i nanobrillamenti e i meccanismi ondulatori misurando le oscillazioni del gas coronale. Fluttuazioni con periodi da circa dieci secondi a qualche minuto rivelerebbero il passaggio delle onde di Alfvén standard lungo gli anelli coronali. L’osservazione delle vibrazioni della superficie solare mediante una tecnica detta eliosismologia fa ritenere che il Sole sia in grado di innescare onde del genera. Sebbene le sue oscillazioni più intense si verifichino con un periodo relativamente tranquillo, di circa cinque minuti, questo è solo un tipo tra le molte ondulazioni sperimentate dalla superficie.
Le osservazioni durante un’cclissi potrebbero essere cruciali per misurare le fluttuazioni nei cicli coronali. I vantaggi logistici dell’osservazione dalla Terra permettono di usare apparecchiatura con una risoluzione temporale più elevata rispetto a quella esistente su qualsiasi strumento spaziale attuale. La mia squadra usa dispositivi ad accoppiamento di carica (CCD) che catturano le immagini numerose volte al secondo. Come confronto si considerino le telecamera dell’Atmospheric Imaging Assembly sul Solar Dynamics Observatory (SDO) della NASA, che catturano osservazioni attraverso vari dei loro dieci filtri una volta ogni 12 secondi, e il Solar Ultraviolet Imager del nuovo Gcostationary Operational Environmental Satellite (GOES-16), che per i suoi sei filtri raggiunge al massimo una frequenza di una volta ogni dieci secondi.
Quello che abbiamo scoperto finora estende quanto si credeva possibile. Alcune oscillazioni potrebbero avere periodi più brevi di un secondo, corrispondenti a una previsione teorica di una speciale modalità di onde di Alfvén che percorrono la superficie degli anelli anziché l’interno. Ma i nostri dati sono scarsi: solo pochi minuti di simili osservazioni ad alta frequenza durante due precedenti eclissi totali. Quest’anno useremo la nostra complessa apparecchiatura CCD, con filtri di colore incredibilmente puro, per isolare il caldo gas coronale, nuovamente in cerca dello spettro temporale delle onde. Speriamo che i nostri risultati aiutino i ricercatori a scegliere tra le diverse teorie sul riscaldamento coronale o addirittura portarli a concludere che operano diversi meccanismi simultaneamente. Nelle regioni attive sopra le macchie solari ci sono condizioni positive per i brillamenti, e le onde sono relativamente deboli. Nelle regioni tranquille, invece, potremmo avere onde su piccoli anelli o milioni di milioni di nanobrillamenti ininterrottamente.
Tattica per le eclissi
Sono stati messi a punto alcuni trucchi per sfruttare al meglio le eccezionali opportunità offerte dalle eclissi. Osservarle ci permette di esaminare la forma della corona in alta risoluzione spaziale e temporale. Le nostre immagini di eclissi ottenute da terra sono almeno otto volte più dettagliate in ogni dimensione rispetto alle migliori coronagralìe spaziali. Le eclissi hanno l’inconveniente di essere brevi e occasionali, ma compensiamo mettendo insieme i dati da eclissi distinte e da siti diversi durante una stessa eclissi.
Per esempio, osservando le eclissi nel corso di un intero ciclo di attività solare di 11 anni, seguiamo i cambiamenti del grado di rotondità della corona, che corrisponde alla distribuzione dei filamenti a varie latitudini, e li confrontiamo con altre misurazioni dell’attività solare. Per questi studi collaboro con l’astronomo Vojtech Rusin, dell’Accademia delle scienze slovacca. Sebbene da uno specifico sito durante un’eclissi la corona sia visibile solo per pochi minuti, possiamo combinare osservazioni da più siti per determinare i cambiamenti dei filamenti e dei pennacchi coronali nel corso delle ore impiegate dall’ombra della Luna per attraversare la Terra. Durante fedissi del 21 agosto potremo anche ottenere osservazioni ininterrotte, da costa a costa degli Stati Uniti, grazie alle osservazioni dei Citizen scientist, i cittadini scienziati.
Un ulteriore motivo per combinare molteplici immagini di un’eclissi consiste nel catturare l’enorme gamma di luminosità della corona. Dalle singole immagini acquisite in molte esposizioni possiamo individuare le parti esposte correttamente e metterne insieme una decina per volta. L’esperto ampiamente riconosciuto di queste elaborazioni al computer è Miloslav Druckmùller, un informatico del Politecnico di Bmo, nella Repubblica Ceca. Dato che la corona è circa 1000 volte più luminosa appena fuori dal bordo del Sole di quanto sia appena un raggio solare più all’esterno, bisogna selezionare le parti meglio esposte da decine di immagini diverse e riunirle. Utilizzando queste immagini composite ottenute dalle ultime eclissi totali le più recenti delle quali si sono osservate dall’Indonesia, dalle Svalbard, dal Gabon, dall’Australia e altrove la mia squadra ha misurato la velocità dei filamenti coronali, dei pennacchi polari e delle espulsioni di massa. Speriamo di arricchire notevolmente queste osservazioni in agosto.
Un altro trucco è sfruttare la graduale invasione del Sole da parte della sagoma della Luna nel corso di un’eclissi. Via via che le macchie solari vengono coperte o scoperte dal bordo della Luna, i telescopi possono osservare bruschi cambiamenti della luminosità del Sole, permettendo di individuare i dettagli. Quest’anno, per ottenere la risoluzione spaziale più alta possibile, la mia squadra sta collaborando con Dale Gary, del New Jersey Institute of Technology, firn Bastian, del National Radio Astronomy Observatory, e Tom Kuiper, del Jet Propulsion Laboratory della NASA, per usare radiotelescopi in modo da misurare i cambiamenti nelle emissioni radio da eventuali macchie solari attive che possano essere visibili a varie frequenze quando la luna copre il Sole.
Anche se questi telescopi sono al di fuori del percorso della totalità, ognuno di essi vedrà coperto circa il 70 per cento del disco solare. Otterremo le osservazioni radio con la risoluzione più alta dall’Expanded Owens Valley Solar Array in California, con i suoi 13 radiotelescopi collegati tra loro che rileveranno osservazioni continue del Sole a centinaia di frequenze da 2,5 a 18 gigahertz. Le immagini a risoluzione inferiore ottenute dal Goldstone Apple Valley Radio Telescope, anch’esso in California, miglioreranno la qualità dell’immagine aggiungendo lo sfondo. Dovremmo essere in grado di abbinare le posizioni esatte dei luminosi anelli coronali, osservati a queste lunghezze d’onda radio, con i punti che si illuminano nell’ultravioletto o nei raggi X osservati dalle sonde, capendo così come si riscaldano gli anelli.
Il campo magnetico della fotosfera è ben studiato, ma quella della corona molto meno. Per rimediare a questo problema, Ed DeLuca, dello Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, e Jenna Samra, dottoranda ad Harvard, in collaborazione con Leon Golub, dello Harvard-Smithsonian Center, e Philip Judge, dello High Altitude Observatory presso il National Center for Atmospheric Research (NCAR) a Boulder, in Colorado, prevedono di seguire l’eclissi da un aereo Gulfstream V del NCAR. Dal loro punto di osservazione al di sopra del grosso dell’atmosfera che assorbe gli infrarossi potranno misurare l’intensità delle linee spettrali a infrarossi, sperando di individuarne alcune che sono magneticamente sensibili.
Se avranno successo, intendono volare di nuovo nel corso di un’eclissi successiva, usando filtri di polarizzazione per misurare il campo magnetico coronale. Separando le onde luminose con orientamenti diversi, le misurazioni di polarizzazione ci aiutano a individuare le diverse componenti della corona. L’interno della parte centrale della corona che vediamo a occhio nudo durante un’eclissi totale è formato da gas altamente ionizzato che diffonde verso di noi la luce solare ordinaria. Questa diffusione polarizza la luce, e il moto degli elettroni provocato da questo processo offusca le linee scure che altrimenti penetrerebbero nello spettro della luce del Sole.
Nella parte più esterna della corona, più vicino all’orbita di Mercurio, la polvere nello spazio interplanetario fa rimbalzare la luce verso di noi ma non la polarizza, né altera lo spettro solare ordinario. Anche altri ricercatori si preparano a studiare la polarizzazione in occasione dell’eclissi di quest’anno, fra cui Nat Gopalswamy, del Goddard Space Flight Center della NASA, Judge e Steven Tomczyk, entrambi dello High Altitude Observatory, e Padma Yanamandra-Fisher, dello Space Science Institute. Nel 2018, quando il telescopio solare Daniel K. Inouye, in corso di costruzione a Maui, inizierà le osservazioni, uno dei suoi strumenti dovrebbe essere in grado di misurare direttamente il campo magnetico coronale studiando la polarizzazione delle linee spettrali a infrarossi. E quando, sempre nel 2018, verrà lanciata la Parker Solar Probe della NASA, volerà attraverso la corona solare e contribuirà a svelare le incertezze nel riscaldamento coronale.
Una collaborazione mondiale
Nel complesso il lavoro per osservare questa eclissi sarà veramente enorme: qui l’ho appena accennato. La NASA ha finanziato 11 proposte, sei per gli studi sulla corona e cinque sulla reazione dell’atmosfera terrestre al significativo raffreddamento provoca to dall’eclissi, argomento su cui ho lavorato con Marcos Penaloza-Murillo, dell’Universidad de los Andes, in Venezuela. Un altro importante gruppo di ricerca statunitense che usa le eclissi per studiare la corona è diretto da Shadia Habbal, dell’Institute for Astronomy dell’Università delle Hawaii. I suoi collaboratori, da lei battezzati Solar Wind Sherpas, riprenderanno la corona attraverso filtri scelti per osservare plasmi di diverse temperature. Il nuovo finanziamento NASA ottenuto da Habbal permette un miglioramento dello spettrografo di imaging a doppio canale di recente concezione del gruppo, che è stato sperimentato con successo nel 2015. Diverse osservazioni da terra e dallo spazio forniranno lo studio più completo di tutti i tempi della corona infrarossa, del suo spettro e della sua polarizzazione.
Il mio gruppo si è avvalso di collaborazioni intemazionali durante le 33 eclissi totali, che ho osservato da siti in tutto il mondo. Ora è giunto il momento di ricambiare l’ospitalità. Ci aspettiamo che le riprese ad alta risoluzione e le analisi di Serge Koutchmy, dell’lnstitut d’Astrophysique di Parigi, e dei suoi collaboratori contribuiscano allo studio dell’eclissi di agosto. Nei siti della mia squadra ci saranno i nostri colleghi provenienti da Austria, Slovacchia, Grecia, Giappone, Cina, Iran e altrove.
Anche i Citizen scientist avranno molte opportunità per dare un contributo al lavoro dei ricercatori. Sono coinvolto ncll’Eclipse Megamovie Project, che si deve allo Space Sciences Laboratory dell’Università della California a Berkeley, ed è diretto da Laura Peticolas. Chi vorrà potrà, tramite un’interfaccia di Google, inviare video e immagini che verranno archiviati e assemblati in filmati che abbracceranno l’intero continente e saranno disponibili a tutti gli interessati, che potranno vederli e analizzarli. In uno spirito simile, Matt Penn, del National Solar Observatory, ha organizzato l’esperimento Citizen Continental-America Telescopic Eclipse (Citizen CATE), una collaborazione su scala continentale di circa 70 siti con piccoli telescopi identici e rilevatori CCD.
Un esperimento insolito che verrà effettuato ad agosto non ha nulla a che fare con la corona, che anzi ci sarà d’impiccio. Come è noto, nel corso di un’eclissi del 1919 Arthur Eddington verificò la teoria generale della relatività di Einstein. Cercò le prove del fatto che la massa del Sole devia la luce di stelle lontane dietro di esso, fenomeno che in realtà è provocato dalla distorsione relativistica dello spazio-tempo. Da decenni dico a tutti che abbiamo cose più importanti da fare, durante un’eclissi totale, che ripetere questo esperimento. Dopo lutto, al giorno d’oggi i fisici hanno metodi più precisi per verificare la teoria della relatività. Ma in realtà, in occasione dell’eclissi di quest’anno, le nuove capacità di osservazione possono rendere questa indagine utile, o almeno interessante.
Il fisico emerito californiano Don Bruns svolgerà osservazioni di questo tipo, grazie a un progetto complesso per calibrare il suo telescopio misurando molte immagini notturne di stelle. Un tentativo precedente di usare le osservazioni ottenute con reflex digitali a lente singola, nel corso dell’eclissi del 2006, da parte del belga Jean-Luc Dighaye, alla cui analisi abbiamo contributo io e Carlton Pennypackcr, dell’Università della California a Berkeley e del Lawrence Berkeley National Laboratory, è fallito, ma era stato effettualo con i pixel grandi delle rellex commerciali. Speriamo che pixel più piccoli e la calibrazione precisa di un rilevatore astronomico CCD avranno successo. Bradley Schaefer, della Louisiana State University, ritiene che gli apparecchi moderni abbiano risoluzione e sensibilità sufficienti per superare la precisione delle verifiche svolte in passato, e cercherà di osservare il fenomeno. Grazie a un catalogo appena pubblicato dall’Agenzia spaziale europea, realizzato con il satellite Gaia, ora conosciamo le posizioni delle stelle con estrema precisione, e cosi possiamo cercare eventuali deflessioni causate dal Sole con meno calibrazioni del telescopio.
Qui vicino
L’eclissi del 21 agosto comincerà all’alba nell’Oceano Pacifico. La totalità avrà inizio sulla terraferma statunitense in Oregon, con fasi parziali visibili in tutti gli Stati Uniti, in Canada, Messico e Sud America. Dopo aver lasciato il South Carolina vicino a Charleston, circa 90 minuti più tardi, fedissi totale finirà al tramonto sull’Atlantico, con fasi parziali visibili dall’Africa nord-occidentale e dall’Europa occidentale. Se le condizioni del tempo saranno favorevoli, scienziati e grande pubblico rimarranno senza parole. Unendo i risultati dcll’eclissi rilevati a terra con le osservazioni provenienti dai satelliti nelle sezioni visibile, ultravioletta, raggi X e radio dello spettro si avrà la visione più completa mai vista dell’atmosfera solare.
Tutto quello che capiremo del Sole si applicherà anche ai miliardi e miliardi di stelle simili al Sole che non possiamo vedere altrettanto dettagliatamente. Può stupire questa scarsa completezza di ciò che sappiamo del Sole, il più studiato degli oggetti celesti.
Ma secondo me i dubbi che ancora rimangono sono una meravigliosa scusa per vivere insieme una delle più grandi esperienze della natura.
Quanto a me, decenni fa durante la totalità ero così intento a scattare fotografie che avevo a stento il tempo di alzare lo sguardo. Ma adesso, grazie agli strumenti automatizzati, posso prendermi qualche secondo per assaporare fedissi mentre le fotocamere scattano e i sensori elettronici caricano i loro dati sui computer. Non vedo fora di ammirare dall’Oregon la mia sessantaseiesima eclissi solare. Chi ne è affascinato come me può già pregustare le eclissi del 2019 e del 2020 in Cile e in Argentina e fedissi totale del 2024 che attraverserà gli Stati Uniti orientali, mentre nel 2023 un’eclissi anulare mostrerà fasi parziali sull’America sia settentrionale che meridionale.