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 2017  agosto 01 Martedì calendario

Il terremoto del centro Italia

24 agosto 2016, ore 3.36 della notte.
Un terremoto di magnitudo 6.0 scuote il centro Italia. La faglia che lo genera si estende per oltre 20 chilometri lungo l’asse degli Appennini, a una profondità compresa tra 8 chilometri e la superficie, in una regione montuosa tra le più belle della nostra penisola. Un’area che ospita numerose cittadine storiche e centri minori di Lazio, Umbria, Abruzzo e Marche, abituate da secoli a convivere con i terremoti, anche più forti di quello appena avvenuto. Si tratta della fascia a più alta pericolosità sismica dell’Italia, che corre lungo tutta la dorsale appenninica, e che è sottoposta a tensioni geologiche continue.
Anche se non è uno dei più forti eventi sismici conosciuti dalle cronache storiche, l’impatto di quel singolo terremoto è tremendo. Nel Lazio, Amatrice e Accumoli patiscono i danni più gravi, stimati fino al X-XI grado MCS (la scala Mercalli-Cancani-Sieberg adottata comunemente per i rilievi macrosismici), con il bilancio più pesante in termini di vite umane. Nelle Marche, Arquata e Pescara del Tronto non sono da meno, con crolli totali di molti edifici e numerose vittime e feriti. Pur con alcuni centri collocati proprio sopra la faglia, l’Umbria sembra avere resistito meglio.
La faglia nota ai geologi, cartografata e studiata da anni è quella che corre lungo la parete ovest del Monte Vettore e prosegue verso sud-ovest in quella dei Monti della Laga. La parte che si affaccia sul Pian Grande di Castelluccio mostra i segni del terremoto anche in superficie, che da subito fanno discutere i geologi. Li mostra proprio accanto e in corrispondenza dello «specchio» di faglia evidente nelle carte geologiche e che è il risultato della ripetizione di molti terremoti come quelli dello scorso anno.
In sala sismica
La notte tra il 23 e il 24 agosto, quando ci siamo ritrovati nella sala sismica della sede romana dellTstituto nazionale di geofisica e vulcanologia (INGV), non potevamo immaginare che fosse iniziata una delle sequenze sismiche più lunghe e complesse dell’ultimo secolo. Guardando i dati dei sismometri della Rete sismica nazionale non abbiamo compreso subito la tragedia. Il calcolo rapido della magnitudo Richter (ML) aveva fornito una stima di 6.0, ma qualche dubbio sulla grandezza del terremoto rimaneva, poiché la ML tende a sottostimare la grandezza reale dei forti terremoti. Invece il calcolo del cosiddetto «momento tensore» e della relativa magnitudo momento (Mw), che fornisce una stima più realistica della grandezza del terremoto, aveva confermato la stima di 6.0. Si trattava di un evento simile a quelli di Colfiorito, in Umbria, del 1997, 11 vittime tra i due terremoti della none e della manina del 26 settembre, e un po’ più piccolo di quello del 2009 all’Aquila (309 vittime). Anche le caraneristiche dell’evento del 24 agosto erano analoghe a quelle dei terremoti precedenti: ipocentri a 8 chilometri di profondità, faglie estese fino alla superficie, movimento della faglia di tipo «direno» (o «normale»).
Un terremoto di quella magnitudo non costituisce un problema per paesi in cui si è prestata un’attenzione continua al rischio sismico, in particolare alla riduzione della vulnerabilità degli edifici. Via via che si delineava il quadro scientifico dell’evento, credevamo e speravamo che i terremoti del 2009, del 1997, del 1984 e del 1979, che avevano già colpito quelle regioni, e i precedenti storici più antichi fossero serviti a ricordare e a prendere le contromisure adeguate, riducendo la vulnerabilità edilizia. Ci sbagliavamo. Nel Lazio il bilancio delle vittime si aggravava ora dopo ora. Alla fine saranno quasi le 300 persone decedute sono le macerie.
Intanto le prime squadre di sismologi, geologi, tecnici erano all’opera già all’alba per migliorare le reti di monitoraggio e cercare le tracce del terremoto sul terreno. Una ricostruzione puntuale e tempestiva del sistema di faglie attivo e fondamentale per delineare un quadro dell’accaduto e per disegnare possibili scenari futuri: la sismicità si sta spostando in altre aree? Ci sono indizi di attivazione di altre faglie? Potrebbero esserci altri forti eventi su strutture vicine?
Già dalle prime ore dopo la scossa principale, nella sala sismica si era raddoppiato il personale per stare dietro ai continui aftershock del terremoto. Con i soli dati della Rete sismica nazionale se ne localizzavano molte centinaia ogni giorno, in pratica uno ogni 2-3 minuti. In realtà erano molti di più, ma poiché avvenivano simultaneamente sulla superficie della faglia principale, circa 300 chilometri quadrati, e su altre faglie minori che si erano attivate, producevano segnali di fatto indistinguibili.
La zona attiva era quasi a metà strada tra i terremoti del 1997 e quelli del 2009. Sembrava che si stesse ricomponendo un puzzle. Un altro piccolo settore dell’Appennino si stava riassestando dopo avere accumulato energia per qualche secolo. I terremoti appenninici sono la risposta a un processo geologico lento che determina l’estensione della penisola dal Tirreno all’Adriatico. L’Italia peninsulare si allarga con una velocità di 3-4 millimetri all’anno, che vuol dire 3-4 metri ogni 1000 anni. Oltre a estendere la penisola. questi movimenti portano a un accumulo di stress sulle faglie dell’Appennino, che resistono a questa lenta tensione fino a quando l’attrito fra i due lembi della faglia lo consentono, poi devono cedere e rompersi, generando un terremoto. Le velocità massime di questa estensione sono osservate lungo l’asse della catena, ed è proprio qui che anche storicamente sono avvenuti i terremoti più intensi. Il concetto di ricarica lenta (periodo intersismico) e rilascio repentino di energia (terremoto), noto come «ciclo sismico», è alla base di molte ricerche mirate alla comprensione delle modalità con cui ogni faglia si prepara alla rottura; si cerca di individuare quali sono le faglie più pronte a generare un terremoto.
Proprio il concetto di ciclicità ha fatto nascere l’idea del «gap sismico», che descrive aree sismicamente silenti da secoli e circondate da zone dello stesso sistema sismogenetico interessate da forti terremoti in tempi recenti. In quest’ottica, il terremoto del 24 agosto sarebbe andato a colmare una parte di un gap sismico. Questo modello, se spiega a grande scala alcune caratteristiche della ricorrenza dei terremoti, in realtà è una semplificazione estrema di un processo molto più complesso: sappiamo che le faglie interagiscono tra loro, che le loro caratteristiche possono variare nel tempo e possono modificarsi durante un terremoto, come mostra l’analisi dei grandi eventi sismici e gli esperimenti in laboratorio su campioni di roccia. Queste complessità sono le ragioni per cui al momento la scienza non è in grado di effettuare previsioni deterministiche a breve termine dei terremoti.
La scossa del 24 agosto era arrivata senza preavviso. Nessun foreshock era stato rilevato nei giorni, nelle ore o nei minuti prima del terremoto delle 3.36. Questa assenza di attività sismica prima della scossa principale era stata interpretata da alcuni come un fatto anomalo, perche era ancora viva la memoria del terremoto dell’Aquila del 2009. Quell’evento era stato preceduto da uno sciame sismico durato tre mesi e da due eventi di magnitudo tra 3 e 4 nelle ore prima dell’evento principale del 6 aprile alle 3.32. Ma la maggior parte dei forti terremoti non è preceduta da sciami, e la maggior parte degli sciami finisce senza sfociare in un fone evento. Questa differenza tra l’attacco del sisma del 2016 e quello del 2009 è ancora più sorprendente se si considerano le numerose analogie geologiche tra i due episodi. Se due eventi così simili si manifestano in modo cosi diverso, significa che i processi di preparazione al terremoto sono ineffabili, almeno dal punto di vista di chi osserva le cose da lontano, come i sismologi.
Complessità
Le sorprese dei terremoti del 2016 non si sono esaurite con quanto accaduto prima del 24 agosto. L’evoluzione della sequenza sismica ha avuto un andamento piuttosto imprevedibile.
Dopo il primo terremoto di magnitudo 6 del 24 agosto, la distribuzione degli epicentri ha subito delineato l’estensione della faglia. Poche ore dopo, i geologi hanno trovato sul terreno le tracce della faglia, poco a est dell’area epicentrale. Come dopo il terremoto dell’Aquila del 2009 e quello del 1997 a Colfiorito, ancora una volta l’intero strato crostale era stato tagliato dalla profondità di nucleazione del terremoto (8-10 chilometri) fino alla superficie, 1-2 chilometri sopra il livello del mare. Le tracce della frattura in superficie erano comunque di piccola entità rispetto allo spostamento della faglia in profondità: solo una ventina di centimetri sul terreno, per una lunghezza di poco più di 5 chilometri, mentre i dati indicavano spostamenti profondi sulla faglia di oltre un metro e una lunghezza della rottura di una ventina di chilometri.
La magnitudo di questi eventi, intorno a 6, è proprio la soglia al di sopra della quale le faglie iniziano a rompere la superficie.
La deformazione geologica, che si accumula lentamente e incessantemente a causa dello stiramento della penisola in direzione circa perpendicolare (da nord-est a sud-ovest) all’asse montuoso appenninico, non e rilasciata con un unico terremoto su una faglia lunga centinaia di chilometri (che potrebbe raggiungere o superare magnitudo 8), ma in maniera frammentata, su segmenti di faglia di lunghezza contenuta. Le prove geologiche, sismologiche e storiche rivelano che le faglie responsabili dei forti terremoti in Appennino hanno lunghezze comprese tra 20 e 40 chilometri, con terremoti di magnitudo tra 6 e 7. In questo modo i terremoti sono più piccoli ma più frequenti e, a causa della vulnerabilità edilizia del nostro paese, sono sufficienti per determinare danni ingenti. Lungo l’Appennino, dunque, si individuano segmenti di faglia che si susseguono in direzio ne da nord-ovest a sud-est lungo le zone più elevate della catena. Una delle sfide della sismologia è proprio la comprensione dei fattori che controllano l’estensione di questi segmenti di faglia, la magnitudo che possono generare, rompendosi individualmente o associandosi in una sorta di effetto «a cascata», e quanto siano stabili nel tempo; in altre parole, si ripetono con le stesse caratteristiche da un ciclo sismico al successivo?
Un controllo forte sulla segmentazione delle faglie è esercitato dalla struttura eterogenea delle rocce che costituiscono la crosta degli Appennini, una catena montuosa giovane e con una storia geologica complessa, che ha lasciato tracce importanti in profondità e in superficie. Le variazioni tridimensionali della struttura geologica sono determinate da contrasti litologici e reologici delle rocce che la compongono, e rispondono in maniera diversa alle deformazioni, influenzando la propagazione delle rotture in un terremoto, in qualche caso arrestandola, in altri accelerandola o facendola «saltare» su una faglia vicina.
Questa forte eterogeneità crostale è verosimilmente anche la ragione per cui nella nostra storia sismica sono cosi frequenti i casi di sequenze multiple, con più «eventi principali» che si manifestano a distanza di ore, giorni o mesi dal primo. Le immagini in profondità della distribuzione delle decine di migliaia di aftershock dopo le scosse principali del 2016 rivelano l’attivazione di numerose faglie, oltre a quella principale responsabile dei terremoti più forti. La coesistenza di più faglie attive a distanza ravvicinata è una caratteristica dell’Appennino e spiega perché sia difficile formulare previsioni su tempi di ritorno e magnitudo dei forti terremoti.
Dopo una fase intensa durata fino ai primi di settembre, con centinaia di aftershock al giorno, la situazione si era calmata nella seconda metà di settembre e per buona parte di ottobre. Sembrava che la sequenza andasse verso un lento esaurimento. Le esperienze dei terremoti recenti e storici, come nel 1703 nella stessa area dell’Appennino centrale, avevano tenuto alta l’attenzione e fatto adottare comportamenti cautelativi. L’attenzione alla comunicazione delle incertezze e dei rischi di sequenze multiple di eventi ha evitato che il disastro assumesse contorni ancora più drammatici. La Commissione grandi rischi aveva messo in guardia dalla possibilità di ulteriori forti scosse nelle aree a nord e a sud della zona attiva dal 24 agosto, per cui erano stati realizzati scenari di scuotimento e di danno.
La sera del 26 ottobre l’attività ha ripreso con due terremoti di magnitudo 5.4 e 5.9, che hanno causato ulteriori danni, ma non vittime, e fatto tornare la paura. L’area interessata si estendeva ormai per 50 chilometri sull’asse degli Appennini. L’area attiva si era spostata verso nord, tra Umbria e Marche. Vedevamo due faglie diverse, adiacenti, o due parti di una stessa zona di faglia che per qualche motivo, legato molto probabilmente alle eterogeneità della crosta, si erano mosse in due momenti diversi a distanza di due mesi. Molti parlavano di effetto domino, temendo l’ulteriore propagazione della sequenza verso nord, o verso sud.
Il 30 ottobre
La mattina del 30 ottobre, alle 7.40, milioni di abitanti delle regioni dell’Italia centrale hanno avvertito una nuova scossa: magnitudo 6.5, la più forte della sequenza e la maggiore in Italia dal terremoto del 1980 in Irpinia, di magnitudo 6.9. La posizione dell’epicentro, però, ha sorpreso tutti: 5 chilometri da Norcia, nel pieno dell’area già colpita. La faglia ricalcava, per circa 30 chilometri, quasi tutta l’area già attiva, a parte il settore meridionale, quello a sud di Amatrice. Le prove geologiche del terremoto erano eclatanti: le faglie del sistema Vettore-Bove mostravano spostamenti tra i due lembi della faglia di alcune decine di centimetri e in qualche settore superiori a due metri, coerenti con il quadro dei dati sismologici. 
Fortunatamente, nessuna vittima ulteriore, né feriti, nonostante i nuovi crolli, il sistema di protezione civile, dalla componente scientifica che analizza i dati e fa le sue valutazioni a chi sul territorio deve garantire la sicurezza dei cittadini, aveva funzionato.
Studiando la distribuzione delle migliaia di aftershock che delineavano il sistema di faglie, le forme delle onde sismiche registrate dai sismometri, le deformazioni della superficie identificate dai satelliti, i rilievi sul terreno, si è capito velocemente che cosa era successo: le faglie dei terremoti precedenti, quelli di agosto e di ottobre, non si erano attivate in maniera uniforme lungo la loro lunghezza da sud a nord, ma con una distribuzione a macchia di leopardo. Con i primi terremoti, alcune parti del sistema di faglie si erano spostate di oltre un metro, altre di pochi centimetri: restavano quindi molte aree in deficit di spostamento, e proprio lì il terremoto del 30 ottobre aveva insistito, colmando in parte queste zone deficitarie, in parte riprendendo e accrescendo il movimento di settori che si erano già spostati con gli eventi precedenti.
Il risultato è un puzzle di segmenti di faglia con spostamenti variabili. Ancora oggi non è chiaro se questo deficit dovrà essere colmato con altri terremoti o se ci siano processi elusivi che non siamo ancora in grado di quantificare e comprendere (per esempio scivolamenti asismici su pani della faglia) o ancora se il gap sia stato colmato. Allo stesso tempo, le modalità con cui questi eventi si sono succeduti ci danno un’opponunità eccezionale per capire come l’attività e le condizioni di stress su un piano di faglia possano controllare l’arresto, la propagazione o anche la ripresa di una rottura, elementi di grande importanza per valutare la magnitudo dei futuri terremoti e l’evoluzione di una sequenza sismica.
La sequenza è proseguita per molti mesi, e a quasi un anno dal suo inizio è ancora alimentata con un centinaio di terremoti localizzati ogni giorno nell’area. L’episodio più significativo, dopo quello di fine ottobre, è stato la serie di terremoti che hanno interessato il settore meridionale, quello verso l’Abruzzo, il 18 gennaio 2017, con quattro eventi di magnitudo tra 5 e 5.5 avvenuti nel giro di poche ore. Anche in questo caso è sembrato che questi terremoti avessero riempito l’ultima lacuna rimasta tra quelli del 2016 e quello del 2009 all’Aquila. La stessa area si era già attiva ta durante la sequenza del 2009, ma anche in quella circostanza con eventi di magnitudo poco superiore a 5. Se si somma l’energia rilasciata dai terremoti del 2009 e del 2016 in questo settore, non si arriva a quella di un evento di magnitudo 5.8, mentre sappiamo che nell’arca ci sono faglie capaci di eventi ben più forti.
Resta quindi il dubbio che in tutta la regione dcH’Appcnnino centrale attiva negli ultimi ventanni un’area estesa per oltre 120 chilometri lungo la dorsale montuosa attraverso Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo siano rimaste zone ancora cariche di energia elastica, che potrebbero attivarsi nei prossimi anni. Le ricerche sul campo e l’analisi dei dati proseguono per individuare e caratterizzare al meglio queste aree.
Amatrice e Norcia
Nel 1859 un terremoto di magnitudo di poco inferiore a 6 colpì la zona di Norcia. La città, che afferiva allo Stato Pontificio e contava quasi 5000 abitanti, subì gravi danni, con 101 vittime e decine di feriti. I danni furono causati dalle caratteristiche dell’edilizia locale. Le case avevano muri sottili costruiti con ciottoli di fiume slegati l’uno dall’altro, con cementi di pessima qualità; avevano inoltre volte pesanti costruite con gli stessi ciottoli, irregolari e senza legatura con i muri. Fu anche rilevato che le case più danneggiate erano le più recenti, erette senza seguire alcun metodo regolare di costruzione; che i due quartieri con i danni più gravi, sul pendio della collina, erano stati costruiti su grandi depositi di scarico e su rovine di edifici più antichi, con fondamenta irregolari. La commissione scientifica incaricata di eseguire rilievi propose nel 1860 una nuova legge edilizia, che fu subito adottata.
Ogni nuova costruzione doveva essere autorizzata da un’apposita commissione; era vietato costruire su terreni non idonei; i muri portanti delle case dovevano essere spessi almeno 60 centimetri e rinforzati con scarpate; gli edifici non dovevano superare i due piani, per un’altezza massima di 7,5 metri; dagli edifici esistenti di tre piani venne eliminato il terzo piano; fu vietato l’uso dei ciottoli di fiume per la muratura. Poco più di un anno dopo il terremoto, quando Norcia fu annessa al Regno d’Italia, la ricostruzione subì un’interruzione. Per questo motivo, e per l’indigenza delle persone rimaste senza casa, negli anni seguenti si registrarono vari episodi di trasgressione delle norme. Molti nursini, tornati nel loro paese in povertà, ripresero a costruire con materiali scadenti. Sembra comunque che la maggior parte degli edifici costruiti nel periodo post-sisma sia rimasta aderente alle prescrizioni, anche grazie a interventi successivi.
Oltre un secolo dopo, nel 1979, un altro terremoto della Stessa entità causò altri danni a Norcia. I successivi adeguamenti hanno contribuito a rinforzare il tessuto edilizio della cittadina umbra, come altri interventi eseguiti dopo i terremoti del 1997. Norcia, insomma, è arrivata preparata all’appuntamento con il terremoto del 2016. Anche l’evento maggiore della sequenza, quello del 30 ottobre, di magnitudo 6.5, con epicentro a soli 5 chilometri dalla città, non ha provocato crolli estesi nell’edilizia residenziale del centro storico, mentre hanno ceduto la basilica di San Benedetto e altre chiese, già compromesse dai terremoti di agosto e del 26 ottobre, e paradossalmente alcuni edifici recenti. Oggi nel centro storico di Norcia è quasi impossibile trovare un edificio con più di due piani (pian terreno compreso), a parte le chiese, il teatro e pochi altri. Alcuni sono stati danneggiati e sono inagibili, ma sono rimasti integri e hanno permesso alle persone di uscire di casa con le proprie gambe. Dopo meno di un anno, la città sta ripartendo.
Amatrice, al contrario, è distrutta e abbandonata; almeno lo è il centro storico, che costituiva il vanto del paese. Eppure in questa città della provincia di Rieti, meta turistica, non era sconosciuto il rischio di un forte terremoto. Il Comune di Amatrice era classificato come area sismica da oltre un secolo, dopo il terremoto della Marsica del 1915, quello che distrusse Avezzano. Dopo questo drammatico evento, vennero classificati i Comuni di tutto il territorio colpito e furono introdotte norme per la ricostruzione.
Se si confrontano le storie sismiche di Amatrice e Norcia non si trovano grandi differenze: entrambe hanno subito danni fino al IX e X grado Mercaili negli ultimi secoli, i maggiori dei quali prima dell’Ottocento. La differenza principale, forse decisiva, è che Norcia ha subito danni da eventi più recenti: quello già citato del 1859, VIU-IX grado Mercaili; quello del 1979, Vili grado. Ad Amatrice, invece, dopo gli eventi distruttivi del Seicento e del Settecento, si sono avuti solo quattro terremoti con effetti locali del VII grado tra il 1883 e il 1963, poi altri, tutti più piccoli. La ragione dei crolli sta principalmente nelle modalità costruttive delle due città: ad Amatrice non sono stati effettuati interventi di riduzione della vulnerabilità, come invece è stato fatto a Norcia nei due periodi post sisma dell’Ottocento e del Novecento. Le descrizioni dei palazzi crollati nel 1859 a Norcia sono simili a quelle viste nel 2016 ad Amatrice.
Le parole del Sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, subito dopo il terremoto sono emblematiche: «Sappiamo che è una zona sismica, ci siamo abituati. Ma una cosa del genere da quando sto sulla faccia della Terra non è mai capitata». È vero, negli ultimi cinquant’anni Amatrice non aveva mai patito un evento del genere. Ma usare l’ultimo mezzo secolo come parametro di misura del rischio è sbagliato, ad Amatrice come in tutto il mondo. Per quello esistono le mappe di pericolosità, e non a caso Amatrice è nella fascia più alta, come molte altre città del centro-sud e non solo.
I terremoti che avvengono sulle grandi faglie appenniniche, come quelle attivatesi nella sequenza del 2016-2017, hanno periodi di ritorno di centinaia o migliaia di anni. Per questo motivo la maggior parte di noi non può averne memoria diretta. Gli studi storici rivelano però che un terremoto «gemello» di quello del 24 agosto 2016 era avvenuto quasi 400 anni fa, nel 1639. Analogamente gli studi paleosismologici avevano evidenziato che più di 800 anni fa un terremoto aveva dislocato la faglia del Vettore fino alla superficie, in modo simile a quanto è accaduto il 30 ottobre 2016. Emerge quindi l’importanza della memoria come strumento fondamentale per la riduzione del rischio sismico.
Oggi abbiamo nuovi metodi e tecnologie avanzate con cui osservare la terra dallo spazio e dal terreno, e caratterizzare così, dalla superficie alla profondità, le faglie che attraversano il nostro territorio. La sequenza sismica del 2016-2017 ha mostrato le potenzialità di questi strumenti per un monitoraggio dettagliato e tempestivo del processo sismogcnctico. In un futuro non tanto lontano potremo seguire ancora meglio i fenomeni sismici in tempo reale, dai satelliti e dal terreno, magari anche dal sottosuolo. Nuovi dati stanno emergendo per caratterizzare sempre meglio la fase preparatoria dei terremoti, permettendoci di comprendere qualche elemento in più, aumentando cosi la nostra capacità predittiva. Nel frattempo, la priorità resta mettere in sicurezza gli edifici, cominciando da quelli delle aree più pericolose del paese.