Style, 1 luglio 2017
L’uomo solo al comando di Valentino. intervista a Pierpaolo Piccioli
“Quando lavora mio papà si chiama Valentino” ha detto la figlia Stella in prima elementare. Oggi ha 11 anni ed é una veterana delle sfilate: ci va da quando ne aveva 2 e mezzo. Prima di lei c’è Pietro, 17 anni, nato nove mesi dopo l’ingresso del padre nella celebre maison. Benedetta, 20 anni, somiglia come una goccia d’acqua a Simona, moglie e madre fantastica, conosciuta sui banchi di scuola e subito riconosciuta come l’amore della vita, il dolce e sicuro approdo cui sarà per sempre bello tornare. Pierpaolo Piccioli, 50 anni a fine agosto, è l’uomo solo al comando creativo di Valentino da quando, un anno fa, Maria Grazia Chiuri è diventata la prima donna alla direzione artistica di Dior. La sua avventura umana e professionale dimostra che si può fare una moda molto speciale restando assolutamente normali, cioè capaci di godere delle piccole come delle grandi cose oltre che di vivere lontano dai riflettori e sui più prestigiosi red carpet del mondo con la stessa spontaneità. Simpaticissimo, affettuoso, spiritoso, sognatore, curioso, felice proprietario di una notevole cultura pop e di una sana ironia che non sconfina mai nella malignità, PPP ama sottolineare di avere nel nome e cognome lo stesso numero di P di Pierpaolo Pasolini e di Papaveri e Papere. Questa intervista esclusiva si svolge a New York, dopo la trionfale sfilata della collezione Valentino Resort 2018 e durante una visita alla mostra Art of the In-Between che il Metropolitan Museum dedica alla mitica Rei Kawakubo di Comme des Garqons. All’inizio volevamo fare un paragone tra il suo lavoro e quello della grande designer giapponese che più di ogni altro ha influenzato e influenza la moda contemporanea. Poi ci siamo accorti che è impossibile: per Pierpaolo la moda è una cosa fatta di memoria e desiderio, sogno e realtà, un libro che ognuno scrive a modo suo.
Cosa pensi di Rei Kawakubo e del suo lavoro?
Ovviamente la amo. Non sono tra quelli convinti che la moda sia arte, anzi. L’arte è urgenza espressiva, si crea per se stessi, perché non puoi fare altrimenti. Nella moda, invece, bisogna creare per gli altri. Secondo me Rei Kavvakubo è quella che più di tutti si è avvicinata all’arte, ha sempre e solo creato senza filtri, perché non poteva fame a meno. Infatti da tutto quello che ha fatto e che fa arriva anche una forte potenza emotiva. Mi piace che questa mostra racconti il suo lavoro senza un ordine cronologico preciso, come se ogni pezzo fosse una poesia.
L’hai mai incontrata?
Sì, all’anteprima della mostra. Ci sono andato perché so che alla sera durante l’inaugurazione non riesci a vedere niente ed ero molto curioso. Lei era silenziosa e remota in mezzo a una folla adorante. Mi ha colpito la distanza che è riuscita a mettere tra sé e gli altri. Non era altezzosa o cose del genere, semplicemente stava lì come se non fosse l’assoluta protagonista dell’evento.
C’è qualche somiglianza tra il tuo lavoro e il suo?
lo ho un grande rispetto per le persone che lavorano con me in atelier e vedo la stessa cosa in tutto quello che fa Rei Kawakubo. Rispettare è una cosa importante. Ognuno lo fa a modo suo, secondo la memoria e la cultura che sente più vicino a sé. Lei fa coincidere i processi creativi con quelli esecutivi. Per me vanno di pari passo, non esisterebbe uno senza l’altro.
Comme des Garcons è stato il primo marchio al mondo a rovesciare i capi, portando all’esterno quel che prima era nascosto all’interno. Tu l’hai fatto in modo eclatante nella sfilata di alta moda dello scorso gennaio. Come mai?
A me piace tanto la frase di Saint Exupery: L’essenziale è invisibile agli occhi. In un capo di alta moda sono essenziali le ore passate a cucire e ricamare tutto a mano, un punto dopo l’altro, scandendo questo lavoro con qualche rito tipo disegnare un fiore sulla carta velina quando la sarta lo ritiene pronto. Ecco la collezione era dedicata a queste piccole cose di solito invisibili oltre che ai miti greci, la quintessenza del bello nella nostra cultura. I giapponesi hanno un altro concetto della bellezza. Loro rompono i vasi e li riparano con l’oro rendendoli più belli e preziosi. Sono totalmente affascinato da questa loro arte chiamata kintsugi, mi piace l’idea del tempo che lascia dei segni che non vengono cancellati o nascosti ma anzi esaltati. Insomma se c’è un punto d’incontro nel nostro lavoro sta nell’indagine sulla bellezza imperfetta, sui cambiamenti dettati dal tempo e dagli eventi, sull’essere e sull’apparire.
Pensi che Rei Kawakubo sia stata influenzata da qualche altro stilista nel suo lavoro?
Penso sia una donna appassionata a quello che fa e quando hai una passione del genere tutto ti influenza. Diventa altro e quindi tuo per uno strano processo che non saprei spiegare, lo non capisco gli stilisti che dicono: ‘non lo faccio perché non fa me’. Risponderei che forse non è uguale a quello che hanno fatto ieri, ma se è vero merita rispetto e impegno, sarebbe sbagliato non cercare di capire le ragioni di quel cambiamento.
A proposito di cambiamenti tu quest’anno ne hai fatti almeno tre grossi per un designer: hai aggiunto un punto di rosa molto forte (tra shocking e magenta) al celebre rosso Valentino, stai radicalmente cambiando le forme dei modelli e sei rimasto solo alla direzione creativa della griffe. Li puoi spiegare?
Ovviamente il cambiamento più grosso è che sono rimasto solo nella stessa azienda in cui ho lavorato per tanti anni con Maria Grazia per cui mi trovo a maneggiare lo stesso immaginario in modo diverso. Tutto il resto è arrivato di conseguenza. Lavorare in due con rispetto vuol dire condividere, pensare, ragionare, riflettere e poi arrivare a un punto di vista comune. Lavorare da soli significa anche fare scelte non sempre ragionate ma più istintive ed emozionali.
Anche Rei Kawakubo che pure è la maestra del nero e del blu a un certo punto ha mescolato il rosa con il rosso. Che ne pensi?
I suoi colori sono molto potenti, non sono mai tradizionali...
Anche i tuoi...
Lo spero. I colori hanno una grande potenza espressiva. Per esempio mi piace il rosso abbinato al rosa perché insieme perdono le rispettive accezioni. Il rosso non è più un simbolo di glamour e potere seduttivo, il rosa perde la sua tipica leziosità. In un colpo solo scardini due luoghi comuni.
Parliamo di volant...
Odio parlare di volant, mi fa subito stilista di una volta.
Quelli di Valentino erano perfetti e decorativi, quelli di Rei Kawakubo hanno anche una funzione tipo far da manica, i tuoi come sono?
A me piace tutto quello che è costruzione, il decoro m’interessa fino a un certo punto. Tento sempre di togliere a volant, fiocchi e ruche il significato che hanno, mantenendone però la forma. I primi a farlo sono stati i giapponesi. Sempre per quella loro idea della bellezza imperfetta.
Sono loro ad averti maggiormente influenzato agli inizi della tua carriera?
No, è stato Romeo Gigli. I suoi vestiti erano evocativi, mi facevano pensare ad altro. Grazie a lui per la prima volta ho capito che dietro a ogni modello c’è un racconto e in questo sta la magia del nostro mestiere. D’altro canto sono uscito dallTstituto Europeo di Design nel 1990 e all’epoca Romeo era riuscito a mettere la poesia nell’estetica che aveva dominato gli anni Ottanta.
Come mai ti eri iscritto allo IED?
Mi sembrava la scuola giusta per provare a far qualcosa di diverso. Contemporaneamente mi sono iscritto anche a lettere ma due anni dopo già lavoravo con Giovanna ed Erminia Manfredi per Gunex, l’azienda del Gruppo Cucinelli che all’epoca produceva solo gonne e pantaloni. Ho imparato moltissimo lì perché era una piccola realtà ma bisognava fare tutto quel che si fa per una collezione. Ricordo la mia prima visita a Prémiere Vision (mastodontico salone parigino dei tessuti, n.d.r.). Tutti dicevano “Quest’anno non c’è niente” e io guardandomi intorno tra milioni di proposte d’ogni tipo mi chiedevo: Ma cosa cercheranno mai che qui non c’è? Poi ho capito, per essere veramente cool nell’ambiente bisogna sempre chiedere di più. E uno stereotipo dello stilismo, un po’ come la nonna vestita alta moda.
Questa cosa significa?
Quasi tutti i designer parlando dei loro esordi raccontano di aver avuto almeno una nonna che vestiva couture. Io no. Sono cresciuto a Nettuno, un posto molto lontano dalla moda che tra l’altro all’epoca non era nemmeno popolare come adesso. Gli stilisti erano dei tipi molto sofisticati che vivevano in un castello tra i fiori e le candele, con la memoria delle nonne elegantissime. Per me che non avevo avuto nulla di tutto ciò era già pazzesco lavorare in questo mondo. Ho sempre visto tutto quello che è arrivato dopo come un’opportunità e un regalo in più. Insomma non c’era ambizione e neppure volontà che tutto questo accadesse. È successo e basta. Per me la moda è stata una scoperta. Lo è ancora a volte, spero di mantenere per sempre l’incanto dei primi tempi.
Il giro d’affari di Valentino nel 2016 è cresciuto del 13 per cento fino a raggiungere la ragguardevole cifra di 1.110 milioni di euro. Ti ha fatto impressione superare il miliardo?
Sì perché significa che abbiamo fatto delle cose belle che son state capite da tanta gente. Detesto l’idea di fare le cose belle per i pochi che capiscono e le cose banali per tutti quanti. È un po’ come il programma televisivo colto e intelligente tramesso alle tre di notte e quello stupido in prima serata. Coprire le domande del mercato è un problema del marketing, il mio scopo è riuscire a far qualcosa che la gente non sapeva di volere finché non l’ha visto. Questa è moda. Dare sogni e desideri. Farlo con coerenza e dignità. Non farei mai nulla in cui non credo solo perché può dare dei risultati economici. Vestiti e accessori per me sono come le passaporte di Harry Potter: li tocchi e ti trasportano altrove.