il venerdì, 21 luglio 2017
Povere tigri, ora sono carne da macello
In Laos una bistecca di tigre costa 45 dollari. A servirla è un ristorante di lusso nella Zona economica speciale del Triangolo d’oro, un’area di diecimila ettari che si trova nella provincia di Bokeo, al confine con la Thailandia, gestita dalla compagnia cinese Kings Romans Group in accordo con il governo del Paese. Questa zona speciale include centri commerciali, aree protette, casinò e il Kings Romans Zoo, uno degli zoo più grandi dell’Asia, amato dai turisti cinesi per le molte tigri, mansuete al punto da permettere ai visitatori di entrare nelle gabbie.
Il Kings Romans però non è solo uno zoo, ma anche un centro di allevamento per tigri destinate al macello. Lo hanno scoperto, dopo lunghe indagini, una serie di organizzazioni internazionali: Wwf, Education for Nature-Vietnam, Environmental Investigation Agency di Londra, International Fund for Animai Welfare e Wildlife Conservatimi Society’s Asia Program. «In tutta la Zona economica speciale non si usa solo la carne delle tigri, vengono venduti liberamente gioielli e preparati medicinali fatti con le loro ossa, ma anche con quelle di leopardi, rinoceronti ed elefanti, presenti nell’area» dice Debbie Banks, dirigente della Environmental Investigation Agency inglese, ong che monitora il rispetto degli accordi intemazionali sulle specie protette. «Il ristorante del Triangolo d’oro non è certo l’unico in Laos ad avere carne di felino. Non sap piamo esattamente quante siano le tigri nel Kings Romans Zoo, perché l’ammini – strazione non fornisce numeri ufficiali. Ma in tutto il Laos ce ne saranno quasi mille in cattività per scopi commerciali».
E il Laos in Asia non è un’eccezione. Le tigri tenute in gabbia illegalmente nei Paesi del Sudest, che in buona parte condividono la sorte di quelle del Laos, sarebbero migliaia. Tra le cinquemila e le settemila solo in Cina, mentre non ci sono dati certi su quelle in libertà nella Repubblica popolare. «In Asia il numero delle tigri in cattività supera oggi di gran lunga quello degli esem plari in natura» dice Banks. La denuncia sulla situazione dei felini nel Laos, lanciata lo scorso autunno a una conferenza internazionale sulle specie protette, è stata alla base di un’iniziativa di Ed Royce, presidente della Commissione affari esteri della Camera Usa. Royce nelle scorse settimane ha segnalato il Laos come «snodo nevralgico del commercio illegale intemazionale di specie protette». Un sonoro schiaffo diplomatico cui seguirà una richiesta ufficiale all’Onu di richiamareilPaeseal rispetto della Convenzione sul commercio intemazionale delle specie minacciate di estinzione firmata a Washington nel 1973 e ratificata da 182 Paesi, Laos incluso.
La tigre, il più grande dei felini (arriva a pesare trecento chili) un tempo abitava in tutta l’Asia, dalla Turchia fino alle coste orientali della Russia. Nel XX secolo, secondo il Wwf, è scomparsa dal 93 per cento del territorio che occupava: dalle zone del Sudovest e del Centro dell’Asia, dall’isola di Giava e Bali e da vaste aree del Sudest. Oggi rimangono, allo stato selvatico, 3.900 esemplari (cinesi escluse).«Il problema grave è che allevare tigri e specie rare per scopi commerciali non fa altro che stimolare la domanda» spiega Grace Ge Gabriel, responsabile per l’Asia deH’Intemational Fund for Animai Welfare. «Non solo. Stiamo osservando in Laos, Vietnam e Thailandia una crescita della caccia di frodo, perché i clienti oggi preferiscono i prodotti ricavati dalle parti di animali presi in libertà».
«Il rischio di legalizzare il commercio di tigri d’allevamento è che questo produca ulteriore richiesta e con essa cresca il bracconaggio» conferma Scott Roberton, direttore del dipartimento asiatico anti-traffico di specie rare della fondazione americana Wildlife Conservation Society. La legalizzazione del commercio è la fine di ogni sforzo legislativo per proteggere le tigri. «La priorità è chiudere tutti gli allevamenti di tigri illegali a cominciare dal Laos» dice Banks. «Per farlo le ong in Asia devono essere forti e presenti. E l’Onu e il governo americano devono sostenere la nostra presenza». Del resto, otto delle dieci principali organizzazioni ambientaliste presenti nel Sudest asiatico sono americane.