la Repubblica, 4 agosto 2017
L’uomo che fermava l’attimo dell’arte contemporanea italiana
Probabilmente fu Jannis Kounellis a proporre di mettersi in bocca un piattino di ferro sul quale accendere una candela. Voleva evocare un’icona orientale per la copertina di un’edizione russa di Flash Art che non vide mai la luce. Ma certo, di chiunque fu l’idea, doveva esserci nello studio un clima di grande complicità, una profonda intimità tra fotografo e soggetto. Perché quella foto, malgrado il volto sia semicoperto, è un vero e proprio disvelamento, una messa a nudo: una sola immagine che racchiude l’intensità, la forza e la poetica di un dirompente maestro dell’arte contemporanea. Non a caso è diventato uno dei più celebri ritratti (e dei più pubblicati) dei nostri artisti. Scatti così nascono dalla conoscenza profonda, dalla sensibilità, dall’amicizia: e Claudio Abate, il grande fotografo che è scomparso ieri all’età di 74 anni, praticava la religione dell’amicizia con le persone che decideva di riprendere. Artisti. Nella sua vita li aveva conosciuti tutti, o almeno tutti quello che contano. A cominciare dai protagonisti della scena culturale romana negli anni ‘60 e ‘70: da Mario Mafai a Carla Accardi fino a Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa. E poi ci furono Carmelo Bene, del quale divenne l’occhio ufficiale, i protagonisti dell’Arte Povera, Gino De Dominicis, Eliseo Mattiacci, fino all’amicizia con Nunzio, Pizzi Cannella e gli altri pittori della scuola di San Lorenzo. D’altronde era figlio d’arte: il padre era pittore e fu un amico paterno a regalargli la prima macchina fotografica, cioè il suo destino, quando aveva solo 12 anni. Nacque allora una carriera precocissima e onnivora. A 16 lavorava già per un’agenzia, a 18 divenne assistente di una leggenda come Erich Lessing. Poi si mise presto in proprio, e si divertiva a raccontare che lavorando per riviste come Playmen riusciva a guadagnare così bene da potersi permettere un grande studio a via Margutta, e da potersi dedicare alla sua vera passione. Che era appunto l’arte: non c’è stato un artista importante che non sia passato davanti al suo obiettivo. E ai giovani esordienti, spesso, regalava il suo lavoro.
Ora, bisogna essere artisti per fotografare l’arte, soprattutto se parliamo di arte contemporanea: che non è mai banale, non si offre quasi mai solo ad uno sguardo frontale, spesso crea un rapporto speciale con lo spazio che la circonda. Abate le ha fornito il suo occhio di innamorato. Diceva: «Non guardo solamente l’opera, guardo l’artista che la sta guardando. Vedo il suo punto di vista, ed è da lì che comincio». Tutto nasce, dunque, da una consonanza. Così si produce il miracolo di immagini tanto vive: come quelle di Pino Pascali che si trasforma in una sorta di dottor Stranamore a bordo del suo missile (una sequenza che Abate amava molto e conservava nel suo studio). O come quella che restituisce la misteriosa intensità del letto di Calzolari dal quale nasce, improbabile, una rosa. A volte i suoi amici gli dicevano che riusciva a mostrare nelle loro opere cose che neanche loro avevano visto: la sua immagine era il particolare mancante, il sigillo finale alla loro creatività.
Claudio Abate non è stato solo il compagno di strada delle ultime avanguardie. È stato un grande artista, anche se lui, dalla persona schiva e fintamente burbera che era, preferiva non esibirsi troppo. Solo dal 2001, finalmente, aveva cominciato ad allestire mostre tutte sue. Lascia due figli, Giulia e Riccardo, e uno sterminato archivio. Dentro c’è la storia dell’arte contemporanea. Ma servirà qualcuno che provi ad ordinarlo. Lui non l’ha mai fatto. «Preferisco vivere», diceva.