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 2017  agosto 04 Venerdì calendario

«Il neonato è rognoso», e gli dà la morfina

VERONA Un neonato in overdose, qui nessuno lo aveva mai visto. Eppure era lì, davanti a due medici e tre infermiere con gli occhi fuori dalla testa. Una quarta infermiera, invece, calmissima. «Dategli il Naloxone», ha detto, e il bambino si è salvato, e lei è finita in carcere con le accuse di lesioni gravi e cessione di stupefacente. Si chiama Federica Vecchini, 43 anni, «una bravissima professionista, esperta e capace, soprattutto con i bambini», dicono di lei i medici dell’ospedale di Verona in Borgo Roma, reparto di Terapia intensiva neonatale. Per l’accusa, sostenuta dal sostituto procuratore Elvira Vitulli, Vecchini ha somministrato morfina al neonato (un mese di vita, nato prematuro ma in dimissione il giorno dopo) perché non smetteva di piangere. Anzi, era «rognoso», nelle parole riferite da una collega: «Mi ha detto “è rognoso, così gli ho dato il ciuccio”».
I fatti sono successi nella notte tra il 19 e il 20 marzo, l’arresto firmato dal gip Livia Magri è di mercoledì, dunque quattro mesi di indagini della Squadra mobile della questura di Verona, guidata da Roberto Di Benedetto, che ieri ha fornito in una conferenza stampa la sintesi dell’inchiesta. Inchiesta che però non è chiusa. Si lavora per capire se la donna abbia usato altre volte la morfina per calmare altri neonati, si setacciano gli archivi per capire se in altre occasioni, con Vecchini di turno, altri bambini abbiano avuto crisi respiratorie improvvise. Un lavoro lungo, perché l’infermiera lavora da oltre vent’anni, sempre in reparti di neonatologia, e solo a seguito dell’inchiesta interna avviata dall’ospedale era stata trasferita in Ginecologia.
«Se c’è un’ordinanza di custodia cautelare, e in carcere, significa che ci sono gravi indizi di responsabilità», diceva ieri il procuratore della Repubblica di Verona, Angela Barbaglio. Significa che Vecchini non voleva certo uccidere quel bambino, ma “solo” calmarlo, ricorrendo addirittura alla morfina, anziché a un normale tranquillante.
Così, quella notte, il bambino ha avuto una crisi respiratoria, così grave che qualcuno ha pensato a una crisi epilettica, e uno dei due medici presenti ha filmato con il cellulare cosa stava succedendo per mandarlo al collega neurologo e avere un parere urgente. Ma non c’è stato il tempo. Federica Vecchini ha “ordinato” il Naloxone, e l’altra dottoressa presente – valutata la situazione – ha confermato e prescritto il farmaco, antagonista della morfina. Il bambino ha reagito benissimo, dopo un attimo ha cominciato a respirare da solo. Salvo.
Massimo Martini, avvocato difensore, dice che «il movente non quadra, ci sono ancora troppe ombre in questa storia. E comunque, la mia cliente ha agito in maniera salvifica, non bisogna dimenticarlo».



«Ma quel bimbo l’ho salvato ho esperienza, so cosa fare»
VERONA «Mi trovo in questo guaio perché ho salvato quel bambino ». Perché «io l’ho salvato», e nessun altro sapeva cosa fare, davanti a quel neonato che sembrava in crisi epilettica, invece no, era un’overdose da morfina. «Io non gli ho somministrato niente, ma ho capito cosa gli stava succedendo », e così Federica Vecchini si difende, dal carcere in cui si trova da mercoledì all’ora di pranzo, e aspetta l’interrogatorio di garanzia di stamane per dire questo: la morfina? Non sono stata io. Il Naloxone? «Ho esperienza, so cosa bisogna fare in certi casi. Infatti ora è vivo, grazie a me».
Federica è un’infermiera perfetta, ma pericolosa, almeno secondo l’ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip Livia Magri. Esiste il pericolo di reiterazione del reato, e preoccupa il fatto che abbia dei figli. Uno, in particolare, di appena cinque anni. Un bambino molto amato e coccolato, assieme ai fratelli maggiori, ma dati gli indizi raccolti in una lunga indagine dalla Squadra mobile, e dato quel “rognoso” riferito dalla collega infermiera di turno insieme a Federica quella sera, si vuole evitare qualunque rischio, anche lontano, per quel suo figlio bambino.
Forse è una donna esasperata, una mamma stanca e magari depressa che si è lasciata sfuggire una parola su un bambino che piange troppo. E forse è un’infermiera esasperata, da turni faticosi e troppo lavoro, come hanno detto ieri le sue colleghe (in lacrime) all’assemblea che i sindacati hanno tenuto in ospedale. «Siamo sempre stanche, manca il personale, siamo poche». E forse è anche una donna stressata, con un matrimonio fallito, una causa di separazione in corso, un ex marito che non ha nascosto il rancore che prova per lei, ai poliziotti che lo interrogavano.
Detto questo, contro di lei ci sono indizi non da poco. Uno. La sicurezza con cui ha “ordinato alla collega e al medico intervenuto” di somministrare la dose di Naloxone necessaria a salvare la vita al bambino: «Fagli 0,5 più soluzione fisiologica!». La dottoressa intervenuta nell’emergenza di quella notte si è fidata e ha prescritto quella precisa dose. Solo dopo, le ha chiesto come avesse fatto a indovinare la terapia. E lei ha spiegato che, data l’esperienza, aveva subito capito che si era davanti a un caso di overdose, e che quella era la quantità necessaria, visto il peso del paziente eccetera. Ma si arriva presto all’indizio numero due: interrogata durante l’inchiesta interna dell’ospedale, Federica nega. «Io ? Ma non sono stata io a dare quell’indicazione, sarà stato l’altro medico, se non la dottoressa». E in effetti ci deve essere stato un bel caos, mentre si stava cercando di rianimare il neonato. Ma tutte le testimonianze sono univoche: i due medici e le tre altre infermiere ricordano benissimo quell’”ordine” e quel dosaggio preciso.
E c’è un terzo elemento, non da poco. Solo lei quella notte «aveva movimentato dei farmaci oppioidi, necessari ad un altro paziente », un bambino affidato proprio a lei. Quindi Federica aveva firmato il “registro di movimentazione stupefacenti” del reparto, aveva somministrato il farmaco al suo paziente, poi, poi non si sa ancora cosa sia successo, ma di certo si sposta dal suo box, va nel box 1 dove la collega si è appena assentata, e che al ritorno la trova con il neonato in braccio, e testimonia: «Ha detto che era rognoso, e così gli aveva dato il ciuccio. Poi l’ha rimesso giù. Poco dopo è iniziata la crisi respiratoria». Infine, il quarto indizio. Un’altra collega ha ricordato una confidenza di Federica: «Io a volte uso la morfina o la benzodiazepina, per farli stare tranquilli. Anche senza prescrizione». Ma l’altra non le aveva creduto, sembrava una vanteria, una cosa così, quasi da ridere.