Corriere della Sera, 4 agosto 2017
L’atletica cerca l’erede di Bolt. «Ma come lui non c’è nessuno»
LONDRA Dopo Michael Schumacher, sulla pista di kart di un villaggio del land dell’Assia la Formula 1 ha trovato Sebastian Vettel. Tramontata la luce di Pete Sampras, il tennis ha colto Roger Federer tra le stelle alpine della Svizzera. E il calcio grazie ai piedini fatati di Neymar si è già assicurato la discendenza della generazione dei fenomeni: Ronaldo più Messi. L’atletica che oggi si lancia alla conquista del mondo nello stadio olimpico di Londra sold out ha un leggero mal di testa che questo tempo uggioso non contribuisce a lenire: chi è l’erede di Usain Bolt?
Esaurito il turno preliminare riservato ad afgani, kazaki e kirgizi, il Lampo stasera si accuccerà sui blocchi per i terzultimi cento metri della carriera in una spoon river di ricordi e nostalgia, primo atto di un lungo addio che trasformerà il Mondiale in un viale del tramonto cucito sulle misure giunoniche del più grande, sprinter immenso da ogni punto di vista (la compattezza di Jesse Owens è storia, la potenza femminea di Car Lewis passato, il baricentro basso di Maurice Greene demodé), e per questo ancor più straordinario. L’ultimo Bolt, perlomeno quello visto nella sua miglior versione stagionale a Montecarlo (9’’95), è farraginoso, ingolfato, opaco in controluce. Ma è pur sempre Bolt, con i suoi otto ori olimpici (maledetto Carter) e undici mondiali, con le sue 5 sconfitte in carriera nei 100 (una, autoinflitta, in quattro Mondiali: per falsa partenza a Daegu), il più fantastico animale da palcoscenico che gli dei abbiano mai plasmato nel tartan. E se il suo rivale più temibile nella finale di domani, il 22enne canadese Andre De Grasse, è costretto a ritirarsi per una lesione muscolare, ci rifiutiamo di sposare le teorie complottiste: il delfino foraggiato per dare buca e non guastare la festa del giamaicano, un pettegolezzo già serpeggiato a Montecarlo, quando il manager del canadese insinuò («È il più forte che sceglie») che Usain non avesse voluto Andre nel cast della Diamond League.
Il problema non è trovare un erede di Bolt nello sprint. È tutta l’atletica, vampirizzata dall’enorme personalità del Lampo (monopolista dei cachet più ricchi con i suoi 250 mila dollari di ingaggio), a piangerlo in vita. Mo Farah, infangato dalle polemiche su coach Salazar, chiude qui. Rudisha è infortunato. Lavillenie non è Bubka e Taylor non è Edwards. Van Niekerk si sfila («Non sono io l’erede!»). Nessuno ha, prima ancora delle vittorie, il carisma, lo status, il profilo di Usain Bolt. Che lascia, come lui stesso tiene a sottolineare, senza successori.
«Non vedo in giro atleti in grado di avvicinarlo in termini di presenza scenica» dice Michael Johnson, la stella più brillante degli Anni 90. «Un nuovo Bolt? Impossibile. I suoi record rimarranno imbattuti» conferma Donovan Bailey, oro olimpico ’96. «È triste vedere ritirarsi la rockstar del nostro sport – riflette il reprobo del doping Justin Gatlin, che tenterà di dare un dispiacere all’eterno rivale —. Ma non escludo che, dopo un anno sabbatico, possa tornare a correre».
A 30 anni, già opzionato da Puma come spot ambulante, è difficile. Ci vorrebbero i Beatles, per scrivere la colonna sonora dei titoli di coda.