Corriere della Sera, 4 agosto 2017
I guerrieri masai a scuola
In lingua masai Loitokitok significa «qualcosa che bolle sotto la montagna bianca». Al tramonto la sommità del Kilimangiaro mostra una minuscola lingua di neve. Al di là c’è la Tanzania. Al di qua le distese dell’Amboseli, una delle oasi faunistiche più ricche del Kenya, il regno degli ultimi elefanti. I Masai che abitano da sempre questi territori sono guerrieri e pastori. Non cacciano, non uccidono gli animali. E questo spiega anche perché gli elefanti di Amboseli non siano particolarmente braccati dai bracconieri, racconta Tommy Simmons, fondatore di Amref Italia. Stiamo viaggiando su un gippone lungo piste e strade sterrate che zigzagano al confine del parco. Sotto un grande albero, Tommy mostra uno dei pozzi che Amref ha disseminato nel corso degli anni. Acqua, salute e formazione sono parole d’ordine per questa Ong fondata 60 anni fa in Africa. Carolyne Naluku si occupa di family planning, nel piccolo centro di Namelok. Negli ultimi anni, racconta, è cresciuto il numero di donne che fanno ricorso alla contraccezione. I metodi più usati: condom fra i giovani, e soprattutto le cure ormonali per iniezione: «Le mamme vengono spesso di nascosto dai mariti», racconta Carolyne, 28 anni. «Può essere un problema quando le donne utilizzano questo strumento per divertirsi alle spalle dei mariti lontani».
Fosse questo, il problema principale. L’Africa nel giro di 30 anni raddoppierà la sua popolazione. E sono gli uomini (compresi i «mariti lontani») i primi a opporsi al controllo delle nascite. Il family planning è spesso percepito come un’intrusione esterna (occidentale) nella tradizione delle famiglie numerose. L’arma vincente «contro la bomba demografica che rischia di affossare lo sviluppo africano», dice al Corriere Githinji Gitahi, direttore generale di Amref, è presentare il controllo delle nascite come qualcosa che non lede la tradizione, anzi la comprende. Con un sorriso Gitahi racconta come introdurre il discorso ai pastori: «Il family planning? È quella cosa che già applicate voi con le vostre capre!».
Nei villaggi masai i recinti per le capre vengono fatti con rami spinosi di «eiti». Ai margini dell’Amboseli, all’imbrunire, due ragazzine che avranno meno di 16 anni mungono le capre usando bottigliette di plastica. Sono le mogli di un pastore. Intorno, i caproni indossano una sorta di «cintura di castità» che impedisce loro di montare le femmine. È il controllo delle nascite secondo tradizione. Gli animali sono la (magra) ricchezza di queste famiglie. E per questo non deve suonare scandalosa la pratica dei volontari Amref: paragonare umani e caproni. O combattere il fenomeno delle spose bambine e promuovere la scolarizzazione (anche) parlando del «valore» di una donna che ha avuto il tempo di andare a scuola. Lo racconta Samson Saigilu, 28 anni, coordinatore dei servizi sanitari di Loitokitok: «Diciamo alle famiglie: se mandate in sposa vostra figlia a 14 anni, il marito pagherà per lei un paio di mucche. Ma una ragazza istruita ne vale almeno 12».
Scuola: parola quasi avvizzita nel nostro mondo, che qui assume un significato rigoglioso. Rivoluzionario. Come fosse una pianta medicinale. Cresciuta al cospetto della «montagna bianca», Nailantei Leng’ete (detta Nice) è diventata per Amref un’ambasciatrice mondiale contro la pratica delle mutilazioni genitali femminili (fgm). «Queste pratiche sono riti di passaggio – racconta davanti a un piatto di riso e carne —. Non si tratta di buttare tutta la tradizione, ma di tenere ciò che è buono, rigettando quel che va contro la dignità e la salute».
Nice spiega così «i riti alternativi», cerimonie in cui «le ragazze diventano donne senza essere tagliate». Sono feste in cui partecipa tutta la comunità masai: la cerimonia ruota intorno alla consegna di un libro alle ragazze. La scuola prende il posto delle mutilazioni. Nice sfoglia un album con foto bellissime scattate durante una di queste cerimonie. Avvengono ad aprile e a novembre, in coincidenza con la stagione delle piogge. Questa è un po’ la storia della sua vita: Nice ha lottato da piccola pioniera per evitare di essere «tagliata». Senza più genitori, si è rifugiata dal nonno, che l’ha protetta accettando la sua volontà contro il parere dello zio. Ora il nonno è molto malato. Lei resta al suo capezzale, e non ci accompagna nel villaggio nella foresta di Rombo, dove Amref svolge un lavoro di sensibilizzazione. È un giorno qualunque, non c’è festa. Le donne ci aspettano nella radura centrale. Le capanne in cerchio. Sono fatte di sterco di vacca. La porta è un fascio di eiti. Dentro è buio pesto. Fresco. Muteyan ha 42 anni e 9 figli. Tutti nati qui dentro. Il capo del villaggio è un giovane di 25 anni. Nel buio della capanna, c’è anche lui. Parliamo di lotta alle mutilazioni femminili e family planning. Il capo è deciso: sono cose importanti. La madre annuisce sorridendo. C’è una bambina di 9 anni, l’ultima figlia: si chiama Nemama, oggi è malata. Il suo primo desiderio: andare a scuola.
Il capo ci porta alla scuola. Sta sulla collina. L’hanno costruita i Masai (quella pubblica è troppo lontana). Casette prefabbricate, pareti di metallo sottile, sedie e tavoli. Eliah Topoika è un maestro volontario. Il capo e il maestro parlano dell’importanza dell’istruzione per tutti e tutte. Due giovani uomini assai poco maschilisti. Un bell’esempio, per l’Africa che deve crescere. Qualcosa di buono che bolle, sotto la montagna bianca.