Corriere della Sera, 4 agosto 2017
Una ripresa che non dà garanzie
Se volessimo limitarci a fare le pulci all’azione del governo segnaleremmo la contraddizione di un sottosegretario all’Economia che avanza una proposta per il riscatto della laurea dei giovani e il suo ministro che rilascia una lunga intervista al Sole 24 Ore e non ne fa cenno. Siccome però vogliamo parlare non di pulci ma di posti di lavoro avanziamo un dubbio più consistente: non ci sembra che il governo abbia una strategia d’attacco per l’autunno. Da una parte è come appagato dalle stime sul Pil 2017 e, dall’altra, rassegnato ad assistere a una lunga campagna elettorale. È vero che Padoan, pur con qualche caveat, ha confermato che sarà adottato un provvedimento di incentivo alle assunzioni dei giovani ma se ne parlerà comunque dopo l’approvazione della legge di Stabilità. Fino ad allora galleggeremo. Il guaio è che dobbiamo fare i conti con una ripresa che ha caratteristiche assai diverse del passato e per trovare un’immagine viva mi è capitato di definirla «geneticamente modificata». Viene dopo una lunga recessione che ha rimesso in discussione (in profondità) molti meccanismi di funzionamento delle economie occidentali e di conseguenza sembra caratterizzata più dai «senza» che dai «con». Non c’è l’inflazione che ci saremmo aspettati, non c’è la crescita dell’occupazione che avremmo sperato, non c’è una dinamica dei salari che possa sostenere i consumi.
È vero che abbiamo robusti segnali sulla fine dello «sciopero degli investimenti» che ha tagliato le gambe al sistema Italia negli anni scorsi ma la ripartenza degli ordini di macchine utensili e robot si «scarica a terra» – come si usa dire – in un tempo non immediato, tanto è vero che le previsioni sull’incremento degli investimenti fissi lordi del 2017 restano ancora basse. Il governo ha piena consapevolezza di queste dinamiche e delle discontinuità che comportano?
Prendiamo, ad esempio, i dati sull’occupazione. Governo e maggioranza si sbracciano ogni volta che esce la rilevazione Istat per darne un’interpretazione ottimistica ma non si fermano mai a considerare l’elemento-chiave: le imprese, in una proporzione 80/20, preferiscono ricorrere alla somministrazione o ai contratti a termini piuttosto che aprire un contratto a tutele crescenti. La spiegazione data finora fa riferimento alla fine dei generosi incentivi che avevano accompagnato il jobs act. Si è poi aggiunto che, in un clima ancora carico di incertezza, le imprese hanno timore di allargare la pianta organica e preferiscono sfruttare tutta la flessibilità possibile. Ma, se come tutti dicono, è la qualità del capitale umano a determinare la differenza nel nuovo contesto competitivo, fatto di innovazione e di metodiche 4.0, perché le aziende operano scelte differenti, perché insistono su un legame debole tra sé e il lavoro? Il fenomeno è ancora più contraddittorio se si pensa alla straordinaria diffusione del welfare aziendale che parte proprio dal presupposto di rafforzare la relazione azienda-dipendente. La spiegazione è che mentre nel caso del welfare lo scambio tra benefit forniti e clima aziendale è immediato, riguardo alle assunzioni le imprese non pensano di poter trarre vantaggi dalla stabilizzazione contrattuale. In questo modo però tutti i discorsi sul valore strategico della formazione e del capitale umano vanno a farsi benedire, tutt’al più servono a compilare qualche slide da convegno. È questo un tema che può appassionare il governo e i suoi ministri alla ripresa dell’attività dopo la sosta estiva? Speriamo proprio di sì, meglio del riscatto della laurea.