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 2017  agosto 03 Giovedì calendario

E contro l’espansionismo di Pechino Donald pensa a nuove mosse (economiche)

NEW YORK Donald Trump firma le nuove sanzioni contro la Russia – misura che avrebbe voluto evitare ma che gli è stata imposta dal Congresso di Washington – e, intanto, apre un nuovo conflitto con la Cina. La potenza asiatica è finita nel mirino della Casa Bianca per il suo espansionismo geopolitico (proprio ieri Pechino ha aperto la sua prima base navale all’estero, a Gibuti, e sta aumentando rapidamente la sua influenza in Africa e anche sui mari), per le sue politiche commerciali molto aggressive e, da ultimo, per l’atteggiamento del regime di Xi Jinping nei confronti della Corea del Nord.
Durante tutta la campagna elettorale Trump aveva mosso accuse durissime alla Cina sul piano economico promettendo che, se fosse stato eletto, avrebbe adottato misure protezionistiche per frenare le importazioni dal gigante asiatico. Ma gli incontri avuti con Xi Jinping lo avevano ammorbidito: ha temporeggiato in attesa dei risultati dei negoziati commerciali tra i due Paesi e di un intervento del presidente cinese sul suo alleato di Pyongyang per frenare il suo programma nucleare e quello per lo sviluppo di vettori a lungo raggio.
Ma la mediazione cinese non ha dato risultati, a giudicare dall’intensità dei test missilistici nordcoreani, mentre i colloqui commerciali tra le prime due economie del mondo sono stati interrotti a metà luglio: nulla di fatto. Ora Trump sembra deciso a passare alle rappresaglie economiche, anche se per ora non è chiaro quando lo farà, come e se agirà nel Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, o se, come è più probabile, varerà sanzioni unilaterali, visto che non crede negli organismi multilaterali.
Gli esperti di diplomazia criticano il presidente affermando che il suo approccio è l’esatto contrario di una linea politica di buon senso: normalmente si fa politica estera usando un linguaggio garbato e tenendo, però, a portata di mano un minaccioso bastone. Trump segue il percorso opposto: alza la voce e minaccia, ma non sembra avere molte armi efficaci a disposizione. E tuttavia la sua sortita contro Pechino sta riscuotendo, nel mondo produttivo americano, molti più consensi dei (pochi) altri atti di governo fin qui messi in campo dalla Casa Bianca.
Ciò perché, stando alle indiscrezioni che trapelano sulla stampa, più che sul volume dell’export cinese (l’anno scorso il deficit Usa nell’interscambio con Pechino è stato di 347 miliardi di dollari), la Casa Bianca si starebbe concentrando sulla tecnologia: sull’uso abusivo della proprietà intellettuale americana (tecnologie, brevetti o marchi Usa) e le barriere create artificialmente per limitare l’attività delle imprese digitali americane in Cina, mentre quelle cinesi sono libere di investire negli Usa e anche di appropriarsi di tecnologia americana.
Questo è, effettivamente, un problema che ha creato per anni frustrazione tra gli imprenditori degli Stati Uniti e che il governo di Washington fin qui non ha saputo affrontare. La Cina, ad esempio, vuole costringere i giganti hi-tech Usa, da Apple ad Amazon, a mantenere tutti i loro dati in «data center» in territorio cinese, se vogliono continuare ad operare nel Paese. Stesso discorso per i centri di ricerca delle industrie che vogliono vendere auto elettriche di nuova generazione nel Paese asiatico. Gli Usa potrebbero aprire un’indagine sulle imprese cinesi in base alla Sezione 301 del Trade Act del 1974 e, poi, imporre dazi punitivi o addirittura revocare le licenze alle aziende che operano in America.