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 2017  agosto 01 Martedì calendario

Galeotto fu il cocomero. Non potevamo resistere al richiamo dell’anguria, la sete era più forte della paura di venire scoperti dai contadini autoctoni assai bellicosi

Il treno si fermò in aperta campagna a Campo di Carne in una stazioncina in disuso, situata al limitare di grandi distese di campi di cocomeri. Eravamo nei pressi della neonata cooperativa Sacida costituita da appezzamenti di terra assegnati agli ex coloni della Libia che non si erano insediati in altre parti d’Italia. La maggior parte di loro era pugliese con qualche veneto e abruzzese. I terreni erano situati a circa 40 km da Roma nella zona di Lavinio, espropriati dai possedimenti della contessa Borghese. Esisteva un confine invalicabile tra la foresta ancora in possesso della contessa e i campi. Narravano le leggende contadine che misteriosi e crudeli cavalieri presidiavano i terreni della nobildonna romana e impedivano a chiunque di inoltrarsi nella fittissima macchia mediterranea, piena di segreti e fantasmi. 
Stemmo molto attenti io mio padre e mia madre a non avvicinarsi troppo a quei paletti irti di filo spinato che in verità ci facevano paura anche da lontano. Non resistemmo però nel mangiare un cocomero così maturo che si era spaccato da solo. La sete fu più forte della paura di venire scoperti dai contadini autoctoni che avevano fama di essere altrettanto bellicosi quanto i cavalieri della contessa. Il sole era al suo zenith. Un sole, a conferma di quanto narrava chi era già stato da quelle parti, che appariva molto più grande che in altri luoghi. Chissà, antiche reminiscenze di inni fascisti, ma effettivamente il sole in quel luogo sembrava enorme. 
La casa dei miei nonni e quella di zio Luigi stavano al limitare dei campi. Bianche tutte uguali si stagliavano all’orizzonte come navi sperdute. Ognuna con il suo pozzo da cui sgorgava un’acqua che in quella calura, come ebbi poi modo di constatare, sembrava la più buona e fresca del mondo. Non capivo il dialetto dei miei nonni materni. Le loro parole suonavano alle mie orecchie come un accorato benvenuto denso di lacrime e singhiozzi. Zio Luigi si esprimeva in maniera più intellegibile e a volte fungeva da interprete per me e mio padre. Aveva fatto la seconda elementare mentre i miei nonni erano analfabeti. 
Entrammo nella casa, tipica casa colonica dotata di ogni comfort secondo gli standard dell’epoca (anni ’50). Erano state inaugurate un paio di anni prima da Amintore Fanfani il vero signore della politica italiana, sì proprio colui che fece deviare l’autostrada del Sole di circa 60 km per farla passare vicino ad Arezzo. Sia vero o no tutto in quegli anni veniva attribuito a Fanfani tanto che persino il giorno di riposo concesso alle forze di polizia era merito suo. Quando mio padre, agente della polizia stradale stava a casa, mia mamma diceva: «Il papà oggi è di Fanfani». 
Quindi tutto nasceva sotto i migliori auspici. Mio nonno lavorava dall’alba al tramonto nei campi e vicino a casa aveva piantato noccioline americane che secondo gli agronomi del tempo avevano un sicuro mercato e avrebbero dato un ottimo reddito. Non so come andò a finire con il mercato delle noccioline, ma le pianticelle costituivano un irresistibile richiamo per noi bambini che ci divertivamo ad estirparle per mangiare i frutti bianchi immacolati che crescevano sottoterra. 
Le urla di mio nonno ci inseguivano ad ogni estirpazione e noi dovevamo scappare per paura che dalle parole passasse ai fatti. Mio nonno era molto compreso nell’interpretare il ruolo del burbero e secondo i suoi figli aveva un senso della educazione basato essenzialmente sulle botte, per fortuna solo minacciate a noi nipotini. Decidemmo comunque di fargliela pagare per la paura che ci metteva addosso. 
Così costruimmo un trabocchetto. Scavammo una buca abbastanza profonda e la riempimmo d’acqua. Poi coprimmo il tutto con delle sterpaglie. 
Ora bisognava attirare l’attenzione di mio nonno e la cosa più semplice era quella di farsi vedere nell’atto di cavare una pianticella. L’inganno funzionò a meraviglia. Il nonno si precipitò verso di noi urlando colorite maledizioni in dialetto coratino e finì dritto con una gamba dentro la buca. Gridava a più non posso tanto che dalla casa si precipitarono in suo soccorso mia nonna, mia madre e tutto il parentado. Ma piano piano cominciarono tutti a ridere, e con nostra grande meraviglia anche il nonno. Il suo atteggiamento fece sì che fummo perdonati più in fretta del previsto. Penso che sotto sotto familiari e parenti furono contenti che quel burbero uomo fosse stato messo alla berlina da un gruppo di bambini. 
I giorni passavano così nella campagna con l’unica angoscia da parte mia: il momento del lavaggio corporale. 
Non c’erano vasche né docce nelle case ed era uso lavare i bambini all’aperto con una bacinella e spugna e con tutte le parti intime al vento. Il vantaggio era rappresentato nell’apprendere molto presto che esisteva una enorme diversità tra maschietti e femminucce di cui però non ne comprendevamo la ragione. Io comunque opponevo sempre un netto rifiuto al lavaggio all’aperto e pretendevo che l’operazione avvenisse al chiuso, al riparo da occhi indiscreti. Venivo accontentato a fatica data la scomodità della casa e l’inevitabile riversamento di acqua su tutto il pavimento. Io ero l’unico bambino del nord e questo riguardo mi pareva rientrasse in una logica quasi di superiorità morale, almeno secondo la mia personale filosofia di bambino nato e cresciuto nel Trentino, figlio di mamma pugliese e papà veneziano.

Il nudismo sia chiaro è stato inventato a sud dove senza alcuna malizia per i bambini fino ad una certa età il costume e le mutandine erano un optional e il bagnetto nudi un dovere, di cui non c’era niente da vergognarsi.ì
Il mare distava alcuni chilometri e l’unico modo per arrivarci era di attraversare la foresta o farsi una ventina di chilometri in bus. La contessa a seguito probabilmente di alcune pressioni politiche (forse dello stesso Fanfani o del suo entourage) aveva autorizzato il passaggio su di una unica strada. L’unica via che si poteva percorrere senza deviazioni di sorta. Un paio di volte in settimana si andava a piedi, a volte si riusciva ad avere un passaggio dai boscaioli che tagliavano gli alberi nella macchia. Il mare di Lavinio era a quei tempi lo stesso che probabilmente aveva visto Enea. Un acqua cristallina incontaminata, con i delfini che giocavano a pochi metri dalla spiaggia. Per noi bambini era il paradiso e per i grandi era fonte di approvvigionamento di granchi e telline. Mia nonna era abilissima nel pulire i granchi e mangiarseli crudi con un po’ di limone. Me li faceva assaggiare, ma a me pareva una gran crudeltà e il più delle volte rifiutavo, anche se la soddisfazione di scovarli nella sabbia e portarli alla nonna mi rendeva di fatto complice. 
Ricordo bene che una volta ritornando dal mare a piedi trovammo numerose colonie di lumache gialle. Alla comitiva, composta quasi da tutte persone di origine pugliese, parve di riconoscere un certo tipo di lumaca assai appetitosa comune in Cirenaica. Superando la paura, in gran fretta ne raccogliemmo quanto più possibile e le portammo a casa. Mia nonna e le altre donne le cucinarono con grande passione e profusione di erbe e spezie varie. Era per loro aver ritrovato un pezzo del perduto Eden libico attraverso sapori dimenticati. La delusione però fu assoluta. Erano immangiabili, amare come il fiele. La delusione fu la stessa, credo, di quando si resero conto che, finita la guerra, non sarebbe stato più possibile tornare in Libia. In quegli anni era appena nata la televisione. C’è n’era una sola al villaggio, centro di aggregazione dotato di spaccio alimentari gestito dal presidente della cooperativa, bar e sala ricreazione con un televisore già vecchio all’epoca dei primi apparecchi televisivi. 
Il villaggio però era lontano e solo raramente ci si poteva avventurare accompagnati o in gruppi ben nutriti con ragazzi più grandicelli...