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 2017  agosto 02 Mercoledì calendario

Filippo Tortu, il talento che va di corsa. «Ai cartoni preferivo Berruti»

GIUSSANO In questo bar brianzolo allagato di luce estiva, la filigrana di Filippo piè veloce ha l’invulnerabilità di Achille e la trasparenza in controluce del giovane Holden. Sbranerebbe volentieri un gelato, si accontenta di un tè freddo. «Avere la fiducia del c.t. Baldini ed entrare nelle Fiamme Gialle mi ha fatto cambiare mentalità: oggi sono un professionista in pista e fuori», dice con una gravità buffa che fa sorridere i suoi angeli custodi, mamma Paola e papà Salvino.
Nel mondo che da venerdì corre, salta e lancia a Londra, ultima ostensione pubblica dell’idolo pagano Usain Bolt, Filippo Tortu è la pepita di 19 anni scavata nella miniera della velocità che l’Italia mette sul banco come ipoteca per il futuro: «Corro i 200: sfuma il confronto con il Lampo che farà i 100, mi dispiace moltissimo. Vado per fare esperienza e imparare. Ho avuto un assaggio di grande atletica all’Europeo e al Golden Gala, ma so che il livello del Mondiale sarà altissimo. Punto a passare il turno abbassando il mio personale, poi si vedrà». Piè veloce, faccia pulita, testa alta.
Protagonista del suo stesso romanzo di formazione, enfant du pays nel quadrilatero che abita con disinvoltura (Costa Lambro, casa; Giussano, campo d’allenamento; Monza, l’ex liceo: nel giorno in cui Donnarumma volava a Ibiza con morosa e aereo privato, lui si diplomava allo Scientifico scegliendo il tema sul rapporto tra uomo e natura; Carate Brianza, dove vive nonna Titta che a pranzo immola etti di pasta per sfamarlo), Tortu è la buona notizia forgiata dai geni pregiati di famiglia che viaggia in 6’’64 sui 60, 10’’15 sui 100 e 20’’34 sui 200, è l’argento al Mondiale e l’oro all’Europeo Under 20, è Paolino Paperino che all’Olimpiade giovanile cade sul traguardo rompendosi entrambe le braccia – sul polso destro conserva un souvenir: una cicatrice di 10 centimetri – e a Roma, nella notte del Golden Gala (e del personale nel mezzo giro di pista), si distorce la caviglia scendendo i gradini di Piazza di Spagna. Il ragionier Fantozzi, in confronto, era un dilettante: «Spero che la nuvoletta mi abbia abbandonato. Ho capito che devo stare attento anche quando mi lavo i denti!». Salvino, che è stato velocista e a Tempio Pausania si allenava lungo i binari della ferrovia, sa di cosa parla: «Per una storta abbiamo rischiato di giocarci Filippo. Assurdo. Il successo di Grosseto e il viaggio a Londra sono quasi miracolosi, credimi».
Crediamo tutto, se raccontato con questa posatezza e serietà. Crediamo alla bellezza semplice e autentica della Tortu family, che comprende anche un fratello maggiore, Giacomo, atleta a Torino («Allenavo anche lui – racconta Salvino – ma poi mi sono accorto che gli stavo dicendo troppe volte stai sbagliando, non volevo provocare crisi d’identità e allora ho fatto un passo indietro»). Crediamo alle potenzialità sconosciute di Filippo, che pur corteggiato dalle Università americane («Dove si fa un’attività agonistica folle: e poi, in che mani mi finisce?» sospira ad alta voce cuore di papà) finirà per studiare economia alla Cattolica, malato di Juventus («Una passione trasmessa dal nonno. Nedved è il mio giocatore preferito anche se sono cresciuto con Buffon e Barzagli: non mi perdo una partita dal 15 giugno 1998, quando sono nato» ride lui), bruciato dal fuoco della velocità («Fare lo sprinter ce l’hai dentro, nel dna: è un fuoco»), fan dei cantautori amati da Salvino («In macchina ho ascoltato la sua musica: Deep Purple, Aerosmith, ma anche Battisti che piace a mamma e Mia Martini che piace a nonna, Mina, Califano e Patty Pravo che piace a me»), ultrà dei piatti di Paola («Zuppa di cipolle e cozze: non ideali per allenarsi, lo so. La pastasciutta, tutta, con ogni sugo. Pizza una volta alla settimana, McDonald’s sempre meno di quanto vorrei...»).
La simbiosi padre/figlio, in un ambiente che non ha mai digerito gli eccessi del duo Andrew Howe/Renée Felton, è una corrispondenza di amorosi sensi che la signora Tortu osserva dal tinello, senza allarmi: «In casa, di atletica si parla il meno possibile». «E Filippo va spesso alle gare senza di me: è giusto che faccia i suoi errori in un’età in cui puoi permetterti di sbagliare» aggiunge Salvino, che è la vera arma in più della freccia Tortu. Filippo è netto: «Ho visto atleti totalmente dipendenti dagli allenatori, con lo sguardo perso verso la tribuna. Quando cerchi il coach per chiedere aiuto, ti manca qualcosa. Io voglio imparare a gestirmi, a sbrigarmela da solo». I paragoni, inevitabili, sono polvere del tempo che si spazzola dalle spalle con la leggerezza dei suoi anni. L’antenato Livio Berruti: «Da piccolo, invece dei cartoni, su Espn guardavo i documentari sui Giochi di Roma ‘60. Quando poi ho conosciuto Livio, che ha quasi 80 anni, ho scoperto un ragazzino più giovane di me...». E Pietro Mennea, il totem: «Me lo ricordo al mare, in Sardegna. Avrò avuto meno di dieci anni: al campo di Olbia, lanciato nella corsa, sprigionava tutto il suo carisma». Si definisce un po’ aperto e un po’ introverso («Ancora non l’ho capito!»), un battutaro incompreso («Nel mucchio, qualche freddura va a segno»), negato con i social. È Filippo Tortu. Vi piacerà, fidatevi.