il Fatto Quotidiano, 2 agosto 2017
Dieselgate&politica, l’intreccio che fa sbandare la Germania
La Germania dell’auto sbanda e rischia di mandare fuori strada l’affidabilità del paese, che prospera sull’export e sull’immagine di integrità morale. Ha perso credibilità, ma continua a guadagnare soldi, come dimostrano i dati delle ultime trimestrali. Ad esempio Porsche, l’ultimo dei costruttori risucchiato nella spirale del dieselgate per via del software di gestione del sistema di abbattimento dei gas di scarico di Cayenne (21.500 modelli da richiamare). Nel primo semestre ha contabilizzato un Ebit di 2,1 miliardi di euro, in crescita del 16%, un fatturato di 11,8 (+8%) ed un Ros, il ritorno sulle vendite, del 18,1%.
La ricchezza della Germania ha quattro (o più) ruote. L’industria dell’auto assicura quasi 810.000 posti di lavoro. Un occupato su sette è impiegato nel comparto dell’automotive, che solo sommando i fatturati dei gruppi Volkswagen (che include Porsche, Audi, Seat, Skoda, Lamborghini, Bentley, Bugatti, Man, Scania e Ducati), Daimler (Mercedes e Smart) e Bmw (comprese Mini e Rolls-Royce) e quelli dei tre principali fornitori (Bosch, Continental e ZF) sfiora i 600 miliardi di euro.
Minato dal dieselgate, il Made in Germany dell’auto è stato nuovamente colpito dal sospetto dell’esistenza di una “cupola” che avrebbe concordato soluzioni tecniche, costi e fornitori. Daimler si sarebbe segnalata alle autorità già nel 2014, mentre Volkswagen avrebbe inviato una sorta di auto denuncia un anno fa: l’ipotesi di accordi, diventata pubblica in seguito ad uno scoop del settimanale Spiegel, non è affatto destituita di fondamento. Il colosso di Wolfsburg ha tentato di minimizzare l’addebito parlando di “normalità dello scambio tecnico tra costruttori”. Ma per lo Spiegel il “Club dei Cinque” (VW, Audi, Porsche, Daimler e Bmw) aveva messo in piedi sessanta differenti gruppi di lavoro che solo negli ultimi cinque anni si sarebbero incontrati mille volte. Bmw è l’unico costruttore che ha respinto le accuse di “cartello”. Uwe Hück, ex pugile e capo del Consiglio di fabbrica di Porsche, ha tuonato contro Audi, stufo delle bugie della casa di Ingolstadt. Negli Stati Uniti ed in Canada alcuni studi legali si sono già attivati per scattare le class action.
Il dieselgate ha colpito 11 milioni di veicoli del gruppo Volkswagen nel mondo ai quali si possono sommare i 3 milioni per i quali Daimler ha annunciato una “azione volontaria” di richiamo in Europa. La “cupola” potrebbe aver commercializzato complessivamente almeno un centinaio di milioni di mezzi. Una cifra colossale. La prima richiesta di risrcimento arriva da Toronto: l’equivalente di 750 milioni di euro.
Il conto che rischia di venire presentato ai costruttori tedeschi potrebbe essere salatissimo. L’Ufficio europeo antifrode (Olaf) guidato dal magistrato italiano Giovanni Kessler, ha chiuso l’indagine sui fondi prestati dalla Bei, la Banca Europea degli Investimenti, a Volkswagen. Si tratta di 400 milioni assegnati per lo sviluppo di tecnologie per migliorare il funzionamento dei sistemi dei gas di scarico e secondo il risultato dell’inchiesta finiti nella realizzazione del software che tarocca i dati. Una decina di dirigenti potrebbero venire perseguiti per frode all’Ue, mentre l’istituto potrebbe chiedere la differenza tra il tasso agevolato ottenuto dalla Bei e quello di mercato.
Gli smottamenti del sistema tedesco dell’auto rischiano di coinvolgere la classe politica. Alexander Dobrindt, il ministro dei trasporti, è l’attuale parafulmine: la Kba, la “motorizzazione” tedesca che dipende dal suo dicastero, è accusata di non aver controllato e di aver ammorbidito le valutazioni sui sistemi di abbattimento dei gas di scarico per compiacere i costruttori. Dobrindt ha respinto le presunte connivenze, ma il giornale Bild Zeitung disporrebbe della corrispondenza tra i funzionari e la Porsche.
Che i costruttori abbiano beneficiato di “coperture” politiche è fuori dubbio. In parte anche legittimamente considerato l’apporto all’export ed alla ricchezza del paese. Alla luce dei fatti, oggi sembrano indebite le ripetute pressioni sull’Unione Europea esercitate dalla cancelliera e dai suoi emissari per evitare un giro di vite sulle emissioni. Dal 2007 la Vda, l’associazione dei costruttori del paese, ha come presidente Matthias Wiesmann, compagno di partito della Cdu e già ministro dei trasporti. Di sicuro i rapporti non sono tesi. Una certa “vicinanza” trova conferma nelle grandi donazioni (sopra i 50.000 euro) al suo movimento nell’anno delle elezioni (si vota in settembre). Nelle casse della Cdu sono confluiti in tutto 1,9 milioni di euro, ai liberali della Fdp quasi 1,6, malgrado non siano nemmeno rappresentati al Bundestag. Mentre per i socialdemocratici della Spd e i Verdi solo le briciole: 100.000 ciascuno. La famiglia Quandt, che controlla Bmw e che grazie al bilancio 2016 ha incassato oltre un miliardo di dividendi, ha gratificato Cdu e Fdp con 100.000 euro ciascuno. Daimler ha fatto una elargizione della stessa entità, ma più bipartisan, a Cdu e Spd.
Oggi a Berlino è in programma il “vertice sul diesel” nel quale ministeri, esecutivi regionali e costruttori si confrontano sulle misure da adottare per migliorare la qualità dell’aria nelle città e risolvere il problema dell’aggiornamento tecnico delle auto con i sistemi taroccati per l’abbattimento delle emissioni.
Ancora prima del vertice le case avrebbero già evitato il peggio: il costoso intervento sui motori, stimato in 1.500 euro per veicolo. Dovrebbero potersela cavare con i 100 euro della sola modifica del software. Una soluzione che lascia aperti gli interrogativi sull’impatto che una riprogrammazione può avere sull’abbattimento delle emissioni senza cambiare le prestazioni garantite agli automobilisti. I costruttori lottano per evitare le limitazioni della circolazione per le auto a gasolio (anche Euro 5) che diverse città valutano di introdurre e che finirebbero per far restare a piedi milioni di pendolari.
La politica ha bisogno di rassicurazioni per sgombrare il tema dalla campagna elettorale, anche se Horst Seehofer, governatore della Baviera, ha annunciato una clamorosa apertura per le azioni collettive nei confronti delle case. Almeno fino al 24 settembre vale la linea dura: anche la Germania deve fare i “compiti a casa”, quelli che finora ha imposto agli altri.