Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2017
Elogio dell’anti-modernità. La democrazia elettronica ha regolato code e prenotazioni
Ho letto che si vuol mettere il numero chiuso in certe città, e persino in certe spiagge, le più affollate. Troppi turisti, troppi bagnanti.
E ho letto che alla Scala c’è gente, soprattutto stranieri di passaggio, che è andata anche in pantaloncini e infradito, e che alcuni di noi soffrono a una tale vista, e scrivono articoli critici e accorati a commento.
C’è dunque in giro qua e là qualche segnale di un nostro sentimento piuttosto strano, e certamente poco dicibile: qualcosa che assomiglia al sentirsi leggermente assediati, minacciati, invasi. Anche in senso fisico: schiacciati gli uni sugli altri, pigiati gli uni contro gli altri. Non c’è posto neanche per stendere il telo o camminare sul bagnasciuga, così sentiamo dire. È come se, nel segreto dei nostri cuori, rimpiangessimo ampiezze, spazi, isolamenti, forse torri d’avorio. E avessimo ancora un’idea di qualcosa che era esclusivo, inoppugnabile, difficilmente raggiungibile. La montagna per pochi eletti, solitari, volitivi, muscolosi ed esperti nell’arte dei sentieri; l’opera lirica per chi ha la raffinatezza (intellettuale e… vestiaria) per poterla gustare.
Siamo però tutti monoliticamente d’accordo a non erigere muri, ripristinare confini, chiudere porti. Abbiamo in mente parole amplissime come: cittadini del mondo, accoglienza, solidarietà, uguaglianza.
Incoerenza? Doppio binario? Oblio?
Perché «accogliere» solo i migranti, gli stranieri dei barconi, i rifugiati, i derelitti? Accogliamo anche i turisti di un giorno, i disperati del mordi e fuggi che invadono le spiagge e che hanno tutti i diritti di godere del sale marino sulla pelle, abbronzatura, pizzetta da asporto e materassino gonfiabile in acqua. Non siamo forse nell’era dei diritti? Senza contare che troverei piuttosto arduo numerare i posti in spiaggia, dare il biglietto e dichiarare il tutto esaurito in mare… E accogliamo anche chi a teatro va scosciato e scollato, dipinto di verde e tatuato. Non è forse proprio questa libertà di essere che ci attrae? Questa libertà di vivere come ci pare, vestirci parlare, mangiare, viaggiare rispettando unicamente il nostro personale piacere e capriccio. Cosa sono queste sporadiche e settoriali limitazioni? Che cosa ribolle in noi, che vogliamo continuamente sopito? Indizio di quale insofferenza – o intolleranza – è mai questa nostra intermittente e commovente reazione, che ci par così reazionaria?
Non vorremo mica richiamare in noi parole come eleganza, gentilezza, buon gusto, educazione, decoro, bellezza? Sono parole fuori luogo, fuori tempo, lo sappiamo bene.
Mi sembra di ricordare che in una pubblicità remota, forse addirittura degli anni ’60, si dicesse: L’eleganza è distinzione. Ebbene, tutte le parole sopra nominate, a ben vedere, richiamano un’idea di distinzione: bellezza, educazione, gentilezza sono concetti che «distinguono», rimarcano differenze, isolano, quindi escludono. Non ci possono piacere; oggi noi amiamo esattamente il loro contrario: tutto ciò che non ci distingue gli uni dagli altri. L’indistinto, l’anonimo, il livellato ci paiono mirabilmente corrispondere a un’idea di uguaglianza.
Va bene. È così. Ma ci è molto difficile rinunciare a valori quali la bellezza. Molto.
L’unica è aspettare che l’estate passi. Con i primi freddi autunnali, le spiagge torneranno quasi deserte. E la gente tornerà bene o male a coprirsi, anche per andare a teatro.
Piccola postilla sulla parola «decoro», che mi è scappata qualche riga più su.
Leggo sul dizionario: «Complesso di valori e atteggiamenti ritenuti confacenti a una vita dignitosa, riservata, corretta».
Nulla da dire. Basta riflettere su ogni singolo termine di tale definizione, soprattutto gli ultimi tre aggettivi: tutto sparito, nulla più che si possa ricondurre a qualcosa del nostro attuale modo di vivere. Soprattutto l’aggettivo «dignitoso». Cos’è mai la «dignità», cosa vuol dire? (cercare anche questo sul dizionario: «considerazione in cui l’uomo tiene se stesso»).
Fare la coda. Mirabile espressione che, si sa, vuol dire aspettare il proprio turno mettendosi uno dopo l’altro, a seconda di chi arriva prima. Imparare l’arte dell’attesa, e del rispetto altrui.
Quante code facciamo alla settimana? Alle poste, alla cassa di un supermercato, in autostrada.
Una volta la coda era selvaggia, senza ordine. Ci si ammassava, in coda, cercando di memorizzare l’ultimo e facendo attenzione a quelli che arrivavano dopo di noi. Siamo stati allevati così, noi della mia generazione: sempre all’erta, abituati a contrastare l’orribile fenomeno di chi ci passava davanti, i furbi che facendo finta di niente ci superavano.
Fare la coda era anche un test di personalità: il timido lasciava correre e si rassegnava a essere sempre l’ultimo pur di non sottoporsi al supplizio di doversi imporre, pur di non dover bisbigliare, arrossendo e morendo di vergogna, l’odiata frasetta: Scusi, ci sarei prima io…; l’estroverso invece si faceva valere senza esitazioni: Guardi che tocca a me, lei è venuto dopo.
Oggi è tutto cambiato, si prende il numerino. Si cerca all’entrata la macchinetta sputa-foglietti e ci si accomoda tranquilli col trofeo conquistato, tenendo d’occhio il cartellone elettronico che sputa a sua volta la successione numerica preceduta da un trillo. Nessuno più «passa davanti» all’altro. Il timido e il prepotente pari sono, hanno raggiunto un’impeccabile uguaglianza. Più niente stress, lotte interiori, accapigliamenti verbali, quasi fisici. Una pace sovrana regna, nelle odierne code. Ci si può serenamente accoccolare anche per ore a smanettare su tablet e smartphone o, semmai qualcuno avesse ancora questo vizio antico, leggere un libro.
Un’acqua stagna. Una palude dove non muove foglia.
In questa democrazia appiattente, però, forse abbiamo perso qualcosa. Direi l’attenzione verso l’altro, la relazione vera, che si fa, a volte, anche guerra. C’era un che di vitale nel conquistare il proprio posto, nell’assicurare una sorta di giustizia sociale. Eravamo paladini, di noi stessi e degli altri.
Allo stesso modo, c’è differenza tra l’andare di persona dal verduraio a scegliere la merce o ordinare per telefono un chilo di pesche o quattro pomodori non tanto maturi. Vedere o non vedere, scegliere o lasciare che altri scelgano per noi, accettando il rischio che almeno un pomodoro su quattro sia mezzo marcio. Il prezzo della comodità.
Oppure comprare on line. Vedere la foto del prodotto e fidarsi. E perdere il contatto fisico, la sensazione tattile, visiva, olfattiva. Scegliere una camicia per la forma del colletto, il colore, ma senza sentire la consistenza della stoffa, la sua setosa o ruvida consistenza. Soprattutto senza provare addosso come ci sta, la camicia. Comprare on line è una sorta di fede lanciata nell’infinito, una fiducia cieca nella sorte. O forse, un’indifferenza, il pensiero che in fondo una camicia valga l’altra, importa la funzione.
Una vita comoda, facile, ordinata. Efficiente, sbrigativa. Via le perdite di tempo, le inutili soste, i vagheggiamenti, i ripensamenti. Economie esistenziali, nel segno di una modernità elettronica.
Così pure il prenotare.
Una volta si prendeva il treno con un biglietto generico, e si cercava disperatamente un posto. Si arrivava anche due ore prima della partenza, per esser più sicuri di trovarlo. E lo si sceglieva al momento: finestrino o corridoio, vagone stipato o scompartimento semivuoto, evitando magari il signore sospetto o la signora chiacchierona che ci avrebbe parlato per sei ore di fila. Ora abbiamo il nostro numero fisso, carrozza e posto numerato. Arriviamo all’ultimo e prendiamo treni quasi in corsa. Siamo sicuri di avere il nostro posto, e come la va la va, accettiamo la nostra predeterminata sistemazione come un destino ineluttabile. Anche qui, non «luttiamo» più.
Anche al ristorante prenotiamo. Finito il tempo in cui potevamo infilarci all’ultimo in un localino che ci capitava davanti agli occhi alle otto di sera e ci attraeva per le luci soffuse ai tavoli, le tovaglie a quadri rossi, l’arredo country o marinaro. Se non hai prenotato inutile entrare. Se entri ugualmente, ti sottoponi alla dura legge del «tavolo riservato» e tocchi con mano la tua inadempienza, la tua anacronistica inadeguatezza: Ha prenotato? No? Allora niente, mi spiace.
Cosa abbiamo perso? L’estemporaneità, la scelta d’istinto, l’istinto, la fantasia, il desiderio, la sorpresa. Il disordine miracoloso e ammaliante di tutto ciò che ci accade (nel senso etimologico, ci «cade davanti»), il caso, la fortuna insperata, i regali della sorte.
Abbiamo scelto l’ordine, la prevedibilità, la norma. E ci sentiamo a posto, corretti, evoluti, molto civili.
Possiamo andare controcorrente? No.
Possiamo non prendere il numerino in sala d’attesa? No. Possiamo non prenotare un Frecciarossa? No. E un tavolo al ristorante, o un albergo a Parigi? A nostro rischio.
Appunto. Abbiamo guadagnato la sicurezza e la tranquillità, abbiamo perso l’ebbrezza del rischio. L’avventura. Parola che usiamo solo per rievocazioni medievali di cavalieri estinti, o che, semmai, ritroviamo sul dépliant di una crociera esotica tutto incluso. Naturalmente prenotata on line.