la Repubblica, 27 luglio 2017
La via della seta. Il nostro Oriente interiore dove tutto ebbe inizio
Nella cultura occidentale l’Oriente è stato a lungo, etimologicamente e letteralmente, la nascita del sole, quindi un riferimento tanto relativo quanto suscettibile di investiture simboliche. Dante, che aveva bisogno di connotare San Francesco come “orientale” per renderlo complementare allo spagnolo San Domenico, non esitò a inventarsi, in piena malafede, un etimologia fantasiosa: Assisi da Ascesi, e quindi la nascita del santo come il levar del sole («però chi d’esso loco fa parole / non dica Ascesi, che direbbe corto, / ma Oriente, se proprio dir vuole»). Ma i simboli sono esosi, e impongono le loro leggi: se l’Oriente è l’inizio, andare nella sua direzione significa andare contro la natura e quindi contro Dio, come fece lo sciagurato Costantino quando, «contro il corso del ciel» (sempre Dante, per bocca di Giustiniano), spostò la sede dell’impero da Roma a Bisanzio-Costantinopoli.
Nell’immaginario medioevale spingersi troppo a ovest (Ulisse) o ad est era un perfetto esempio di hybris: Alessandro Magno arrivò fino in India, ma quando si intestardì a raggiungere il Gange, che secondo le favole segnava il confine orientale del mondo, i suoi stessi soldati si rifiutarono di seguirlo: l’impero rimase dunque imperfetto. E alla fine (potrebbe essere un racconto di Borges), di tutte le Alessandrie fondate dal conquistatore la più famosa è rimasta la più occidentale, quella egiziana.
Che il mondo non terminasse col Gange lo sapevano, in particolare, due categorie: i dotti e i mercanti. In entrambi i casi, tuttavia, l’estremo Oriente era così indefinito da poter essere liberamente colonizzato dai propri sogni. L’Angelica amata da Orlando è figlia del re del Catai, dunque è cinese, ma questo non ha impedito a Boiardo e Ariosto di pensarla e di descriverla come bionda, imponendo a ogni lettore di associarla alla toscana Beatrice e all’avignonese Laura (con la stessa libertà Alex Raymond, il creatore di Flash Gordon, avrebbe attribuito una vistosa chioma rossa alla principessa Aura, figlia di un imperatore che chiamandosi Ming e regnando sul pianeta Mongo è un’evidente trasposizione del tipo cinese).
Produttori e consumatori di parole, i letterati tendono a ridurre l’Oriente a un nome: può accadere così che nell’italianissima Fortezza Bastiani il favoleggiato nemico, l’attesa, la paura, l’invecchiamento, la delusione, tutto si riassuma in una parola: i Tartari. Del resto è noto che il più raffinato dei prosatori italiani del Seicento, quel gesuita Daniello Bartoli che entusiasmò lettori eccellenti come Giacomo Leopardi e Giorgio Manganelli, scrisse ponderosi libri sulla Cina e sul Giappone senza essersi mai mosso da Roma, così come Verona e Torino avrebbero dettato a Salgari, nella logica della compensazione, un Oriente avventuroso proprio perché linguisticamente sfrenato. A differenza di Bartoli, Manganelli nell’estremo Oriente c’è stato: ne nacque un libro significativamente intitolato Cina e altri Orienti, dove appunto la Cina è una “idea” di Oriente, intercambiabile con altre idee e altri simboli («ogni viaggio è un simbolo, un’iniziazione: figuriamoci un viaggio in Cina»).
Ma dicevamo dei mercanti, uomini pratici dediti all’acquisto della seta e delle spezie, mossi da una ratio economica scevra da ansie metafisiche di virtute e conoscenza: eppure anche questi uomini, una volta in gioco, si sono lasciati sedurre da una sorta di coazione al meraviglioso. Cinocefali, cefalopodi, ircocervi e mostri di ogni genere popolano il Milione di Marco Polo, così il contrappasso di questo veneziano che si arricchì con l’importazione della seta fu di non essere creduto, e ci sono volute lunghe e puntigliose ricerche per stabilire che nel “gran Cataio”, fin dentro la corte di Kublai Kan, ci andò per davvero. E tuttavia anche in seguito egli è rimasto il prototipo del sognatore ad occhi aperti, colui che nelle Città invisibili di Italo Calvino descrive a Kublai Kan città che si possono incontrare solo nei sogni o, appunto, in letteratura. Lo stesso Marco Polo colloca in Cina i possedimenti e le ricchezze del leggendario Prete Gianni, l’uomo che diverse tradizioni vogliono in Mongolia, nel Tibet, in Etiopia. Il Prete Gianni è ovunque, dunque è la stessa carta geografica; e il suo stesso nome evangelico ne tradisce il sottinteso coloniale: se si chiama Gianni, le sue ricchezze saranno le nostre.
A metà strada fra Europa e Cina, lungo la via della seta, Samarcanda, il cui ruolo di mediazione culturale oltre che commerciale fu colto da Marco Polo in una breve frase: «Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini» (così nella versione dell’anonimo toscano). Città persiana, conquistata prima da Alessandro Magno poi dai turco-mongoli di Tamerlano, appartiene oggi all’Uzbekistan, ed è l’ombra di ciò che fu. Il suo splendore e il suo prestigio vivono nella letteratura, nelle fiabe e nelle canzoni (per l’Italia la prima citazione è Samarcanda di Roberto Vecchioni, ma anche la fiera dell’est di Angelo Branduardi, per quanto ispirata a un canto popolare ebraico, potrebbe collocarsi là): questo fa della Samarcanda storica un fantasma continuo alle città invisibili di Calvino, o a quella Parigi che, distrutta dai grands boulevards di Haussmann, era intravista da Walter Benjamin nei passages, «côté onirico della città di Baudelaire». Viceversa, l’espressione “via della seta” non è altrettanto antica: fu coniata infatti solo nel 1877 dal geografo tedesco Ferdinand von Richtofen, zio di quel Manfred destinato a entrare nella leggenda come il Barone Rosso. Lunga 8.000 chilometri (che in certi casi, per via di circonvoluzioni imposte dai conflitti in corso, potevano arrivare a 10.000), la Seidenstras- se si definì e articolò compiutamente durante l’impero romano, cioè tremila anni dopo che i cinesi avevano inventato la sericoltura: c’è dunque una logica se proprio Giustiniano, l’imperatore che in Dante condanna gli spostamenti ad est, cercasse di rendere inutile la lunghissima via impiantando in Occidente la stirpe dei bachi: vuole infatti la leggenda che per suo incarico due monaci portassero in Europa, nascoste all’interno di alcune canne di bambù, le uova del prezioso lepidottero. La seta divenne così anche un prodotto occidentale (nella fattispecie italiano), ma ciò non ridusse più di tanto l’andirivieni lungo la trafficatissima via: ancora mille anni dopo Giustiniano, infatti, essa è ben visibile in quella che viene considerata la prima carta geografica della Cina, la Mappa dei diecimila paesi del mondo fatta eseguire all’inizio del Seicento da Matteo Ricci, un gesuita che a differenza di Daniello Bartoli in Cina non solo andò, ma vi si stabilì per quasi trent’anni, finendo col diventare – per lingua, nome, foggia di vestiti e acconciatura – un cinese a tutti gli effetti. E a risarcire la sua nuova patria del furto dei bachi da seta avvenuto mille anni prima, Li Ma Tou (come volle ribattezzarsi) regalò alla Cina una delle cose più occidentali che si possano immaginare: la geometria euclidea.