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 2017  agosto 02 Mercoledì calendario

30 anni di It

Nel 1987, a un anno di distanza dall’uscita americana, un libro a forma di palloncino planò sugli scaffali delle librerie italiane. Si intitolava “It”, costava 27mila lire, era tradotto da Tullio Dobner ed era il capolavoro di uno scrittore dagli occhiali spessi, lo sguardo mite e il successo di chi, per dirne una, quattro anni prima aveva visto tre dei suoi libri nella classifica del “New York Times”. Contemporaneamente. Quello scrittore si chiamava Stephen King e in un tempo in cui gli autori di bestseller si contendevano il mercato a suon di milioni di copie, lo scrittore del Maine era quello che vendeva più di tutti, scriveva più di tutti ed era amato (e criticato) più di tutti gli altri messi insieme.
Trent’anni dopo Stephen King ha ancora l’aria del vicino di casa che ti dà una mano quando la macchina non collabora o non sai a chi lasciare i figli quando la zia ipocondriaca ti telefona per annunciarti le sue ultime volontà, le lenti dei suoi occhiali somigliano meno a fondi di bottiglia (la tecnologia è andata avanti), ha i capelli più grigi e qualche ruga sul viso affilato, zoppica un po’ a causa dell’incidente che quasi gli costò la vita nel 1999, continua a scrivere libri da vetta delle classifiche e ha ancora l’aria di chi si diverte un mondo a farlo.
Basterebbe questo per salutare il ritorno – anche se in realtà non se ne è mai andato – di It nelle librerie italiane, sempre grazie a Sperling & Kupfer, con una nuova copertina che richiama quella della locandina del nuovo omonimo film in uscita (il trailer nelle prime 24 ore online ha avuto 197 milioni di visualizzazioni, cifra record). Il romanzo ha avuto qualche aggiustatina alla traduzione, come è d’obbligo dopo tre decenni. Tutto questo però non basterebbe né a illustrarne la grandezza né il debito di riconoscenza che lettori, scrittori, sceneggiatori e registi hanno nei confronti dell’Uomo del Maine. O l’impatto che It, grazie anche alla serie tv che ne fu tratta nel 1990, ha avuto sulla cultura pop contemporanea, e che non ha paragoni. Serie televisive come Twin Peaks, Lost, Stranger Things, Desperate Housewives, X- Files e tante altre portano le stimmate di quel modo, obliquo, di mostrare la realtà. Per non parlare dei romanzi.
Ed è buffo pensare che in teoria, It si sarebbe dovuto rivelare un gigantesco flop. Racconta una storia che si muove su due piani temporali intersecati fra di loro, non ha un vero protagonista (ce ne sono sette), non c’è nemmeno l’ombra di un eroe (solo “Perdenti”, nome del gruppo di amici al centro della vicenda), la trama ruota attorno a dei bambini uccisi in maniera atroce (come dimenticare il povero G-Georgie e il suo braccio staccato come l’ala di una mosca?). Il tutto condito da: indifferenza, bullismo, razzismo, voyeurismo, violenza domestica diffusa come la Coca Cola, sesso fra minorenni, devianze di ogni forma e tipo, in una cornice che è un lugubre spaccato di quell’America di cui ci piace vagheggiare, ma che mai vorremmo vivere. Il tutto in più di 1200 pagine. Come avrebbe potuto essere un successo un libro così?
Solo che It è questo e molto altro ancora. Prendiamo il contesto, ad esempio. Derry, la cittadina in cui è ambientata la vicenda, rientra a pieno titolo nel novero di quelle località inesistenti (come Twin Peaks, Macondo, la Innsmouth di Lovecraft e la Vigàta di Montalbano) che da subito ci sembrano familiari tanto quanto il quartiere che abitiamo. Derry è fatta così: c’è un fiume, una strada principale, un gran numero di bettole, una scuola, una farmacia e qualche negozio. Si divide fra il quartiere dei poveri e quello degli ancora più poveri perché non ci sono ricchi a Derry, solo qualche disgraziato che pensa di essere classe media ma che della classe media ha solo i pregiudizi e la violenza repressa. La stessa violenza di cui il fiume Kenduskeag (che quando piove troppo esonda), è perfetta metafora. Proprio come Macondo, Innsmouth e Twin Peaks, Derry è un microcosmo in cui niente, nemmeno il dettaglio più insignificante, è superfluo.
Anche i sette Perdenti, sei ragazzi e Beverly Marsh, la ragazza dai capelli rossi di cui tutti ci siamo innamorati almeno un po’, che si metteranno a caccia di It (la Cosa Mostruosa come la chiamerà giustamente Oreste del Buono nella prima recensione dell’epoca), incarnano archetipi tutto tranne che stucchevoli. È una delle sue caratteristiche più ammirevoli di King, questa. I personaggi dei suoi libri vivono e respirano al punto da riempirci di nostalgia ogni volta che terminiamo uno dei suoi romanzi. E lo fa soprattutto, quando tocca uno dei suoi argomenti preferiti, l’addio all’infanzia. Tema che troviamo in It, in Il corpo (il racconto da cui è stato tratto il film Stand by Me), in Christine e in tantissimi altri. Non credo sia un azzardo ricordare che il giovanotto allampanato che viveva in una roulotte prima di diventare la rockstar dell’editoria che è, si guadagnava da vivere facendo il lavoro più misterioso di tutti: l’insegnante. Perché solo chi si è seduto dietro una cattedra avrebbe potuto delineare con tale precisione le dinamiche dei primi amori e la minacciosa cecità degli adulti nei confronti dei ragazzi.
Proprio come It, il mostro che assume la forma del licantropo, del vagabondo zombie o del pagliaccio («lo senti l’odore del circo, Georgie?») anche il talento di Stephen King possiede la capacitò di descrivere le mille sfumature di quello strano animale che chiamiamo uomo. La dolcezza di una promessa fatta da bambini, la paura di un adulto che si interroga sul proprio passato, la brutalità di chi di fronte al sopruso preferisce chiudere gli occhi, il razzismo come antidoto alla noia e l’amore che non è trillo di violini, ma forza potente. Ccome quello di un ragazzino balbuziente che sogna di fare lo scrittore («la verità è che la politica cambia sempre. Le storie inventate mai»).
Ma perché l’opera di King ha avuto un impatto così forte sulla cultura popolare degli ultimi tre decenni? Perché grazie a King la narrativa è tornata a fare quello che gli riesce meglio: raccontare storie. Che è l’esatto contrario della cosiddetta “fuga dalla realtà”. L’opera di King è profondamente immersa nella realtà e lo scrittore non è tipo da tirarsi indietro quando si tratta di dire le cose fuori dai denti. Stephen King fa il tifo per l’uomo che si rimbocca le maniche e cerca di dare il meglio di sé nonostante tutto e tutti, racconta dell’emarginato, sta accanto al diverso e al Perdente, senza falsa pietà o moralismo. King ha conosciuto la povertà e la fatica, quella vera. L’ha vista attraverso gli occhi di sua madre, che fra mille lavori ha cresciuto lui e suo fratello David. Non c’è frase nei suoi libri che non trasudi questa consapevolezza ancora oggi, a quasi settant’anni (il prossimo 21 settembre) e uno status da rockstar dell’editoria. È la consapevolezza a rendere It un capolavoro e Stephen King uno dei pochi scrittori a saper raccontare la verità dentro una bugia. Che poi è ciò che trasforma un libro in una magia.