La Stampa, 2 agosto 2017
Noi umani addestreremo i robot, ma dovremo anche imparare dalle macchine
Robot negli uffici, nelle case, nelle fabbriche, per le strade. L’idea di vivere – e lavorare – accanto a loro sta entrando nella realtà quotidiana. Un assaggio di questo mondo prossimo futuro si avrà al primo Festival Internazionale della Robotica, in programma dal 7 al 13 settembre, a Pisa. Là si assisterà a dimostrazioni di robot collaborativi – i cobot – in grado di lavorare nello stesso spazio degli umani (e senza rischi), visitare esposizioni di robot chirurgici, partecipare a convegni su processi manifatturieri e sull’«advanced robotic training». Si tratta, in quest’ultimo caso, di addestrare robot con un corpo, come tecnici in carne e ossa, nervi e riflessi.
«Queste macchine stanno per lasciare i laboratori ed entrare nella nostra vita – annuncia Paolo Dario, direttore dell’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e ispiratore del Festival -. Credo che debbano essere intelligenti, ma non troppo. Essere in grado di apprendere dagli uomini, ma senza superarli. Lo sviluppo della robotica procede di pari passo con la regolamentazione. E quindi – aggiunge – sono ancora valide le tre leggi di Asimov: la prima impone che un robot non potrà mai recare danno a un umano. La singolarità che mi interessa – sottolinea – non è quella del supercomputer, ma la capacità dei robot di assimilare abilità manuali, anche di alto artigianato: robot cuochi, fabbri, ricamatori. Perché no: un robot maggiordomo, di stampo inglese. Questa intelligenza permetterebbe di salvare un tesoro molto umano, quello dei mestieri che non vogliamo più fare».
La maggiore preoccupazione è però quella di essere sostituiti dai robot. Secondo uno studio dell’Università di Oxford, la metà del mercato del lavoro Usa potrebbe essere occupato da robot e assistenti virtuali già nei prossimi 20 anni. Allo stesso tempo una ricerca di Metra Martech sostiene che l’indice di disoccupazione decresce con l’automazione. E intanto un’analisi di Barclay Capital prevede che i cobot saranno 150 milioni nel 2020. «Le macchine collaborative, comunque, cambieranno la percezione del pericolo: nella sola Cina si prevede la creazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro grazie a loro», dice Dario.
E allora c’è bisogno di un’educazione umana all’universo della robotica? La risposta è negli esperimenti d’insegnamento, in cui i primi rudimenti – e la confidenza – sulla robotica vengono appresi dall’infanzia (un esempio è l’italiana scuoladirobotica.it), e nella collaborazione della Scuola Sant’Anna con molti istituti toscani. «Gli umani addestreranno i robot, ma dovranno anche apprendere da questa nuova collaborazione – sostiene Dario -. Credo che si debba puntare a un sistema misto: iniziativa privata ma ben regolata dallo Stato».
***Filippo Cavallo, ricercatore responsabile dell’Assistive Robotics Laboratory
«I robot si evolvono. Certo, sono i progressi delle scienze umane a farli evolvere, per ora. Ma la sfida dell’Intelligenza Artificiale è proprio quella di consentire ai robot di crescere autonomamente, grazie alle loro stesse esperienze e ai rapporti con gli esseri umani».
Filippo Cavallo è il ricercatore responsabile dell’Assistive Robotics Laboratory alla Scuola di Sant’Anna di Pisa. Il focus della sua ricerca è proprio sui robot di utilizzo domestico. Quelli che avranno un contatto continuo con le persone che assistono. Già oggi alcuni assistenti virtuali su Internet vengono scambiati dagli utenti per uomini e donne reali, i quali arrivano creare rapporti empatici con loro. Accadrà anche con i robot domestici?
«I robot che abiteranno le nostre case saranno quelli che avranno il contatto più stretto con i loro interlocutori umani. Per ora siamo ancora lontani dall’Intelligenza Artificiale degli algoritmi che esprimono gli assistenti virtuali. La sfida è quella di raggiungere lo stesso livello di intelligenza in robot che si muovono nello spazio e che hanno un corpo fisico. Il tipo di esperienza che elaboreranno sarà più complessa di quella dei “virtual assistants”».
Saranno più completi, in un certo senso, meno astratti dei «bots»? «Avranno un rapporto a tu per tu con l’individuo che assistono e, quindi, anche un’esperienza diretta. Potranno adattarsi al suo carattere e alle sue esigenze specifiche. Un aspetto molto utile per robot domestici che aiutano una persona anziana oppure un disabile».
Robot di servizio e anche di compagnia, quindi ? «Di sicuro robot molto funzionali. Capaci di collegarsi ai software che regolano la domotica di una casa, come di esplorare Internet in perfetta autonomia per cercare informazioni utili per il loro lavoro quotidiano. Ci saranno poi tanti servizi su Internet, dove i robot potranno “parlare” tra loro, scambiarsi dati e anche vere e proprie esperienze».
Sarà – conclude Cavallo – «una vera e propria Internet dei robot, l’evoluzione di quella che oggi chiamiamo l’Internet delle Cose».
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Calogero Oddo, bioingegnere all’Istituto di BioRobotica
«È tutto nei sensori. Il robot rallenta fino a fermarsi, quando registra la presenza di un essere umano che oltrepassa la distanza di sicurezza. C’è una zona verde, poi una zona gialla e, infine, una zona rossa». Calogero Oddo, bioingegnere all’Istituto di BioRobotica si occupa di robot industriali. È il settore in cui i lavoratori si sentono più minacciati dall’arrivo massiccio degli esseri meccanici in fabbrica.
«È tuttavia un errore di percezione. Anzi, con l’impiego di robot collaborativi, io credo che potremo riportare in Italia molta della produzione che è stata delocalizzata nei Paesi dove la manodopera è a basso costo». Come? «Attraverso la collaborazione tra umani e robot che possono condividere lo stesso spazio senza pericolo per i primi. I robot potranno svolgere le mansioni più pericolose e stressanti. E verrà anche ottimizzato il processo produttivo».
Qual è la differenza tra i robot collaborativi e la generazione che li ha preceduti? «Il rischio per un essere umano di farsi male, lavorando a contatto con un robot prima era alto. Con i nuovi modelli è quasi inesistente. Non solo hanno una sensoristica sofisticata. Hanno una pelle artificiale e sono in grado apprendere attraverso il “program by example”: si programmano per imitazione lavorando vicino operai umani. Che a loro volta dovranno conoscere bene i robot. Con una metafora: il robot viene preso per mano».
Oddo è arrivato ai robot industriali attraverso una ricerca in campo biomedicale. «Lavoravo sul tatto – racconta -. Il proposito era ricreare un senso del tatto artificiale in persone che lo hanno perso. Si è visto che queste ricerche potevano avere un’applicazione interessante per la robotica industriale. Un robot con il tatto, infatti, è in grado di maneggiare un oggetto in modo complesso. Per esempio, può attuare un controllo di qualità di un prodotto tessile».
Sempre più simili agli umani, quindi? «Ma non identici. Ci sono, infatti, molti studi che hanno rilevato la nostra difficoltà a stabilire un rapporto con un essere artificiale che sia indistinguibile da un umano».
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Raffaele Esposito, dell’Istituto di BioRobotic
«Per favore, non chiamateli robot infermieri!», avverte Raffaele Esposito, che all’Istituto di BioRobotica segue un progetto per l’impiego di robot all’interno di strutture sanitarie.
Esposito spiega che, quando i robot sono stati testati nella Residenza sanitaria «San Lorenzo» di Firenze, i primi a mostrare diffidenza verso gli alieni meccanici sono stati gli infermieri. «Non si tratta solo della paura di essere sostituiti dagli automi, hanno anche sollevato un problema di responsabilità: cosa succede nel caso di errore? E chi ne risponde?».
La salute è da sempre una materia che agita ansie e suscettibilità, sia nei malati sia nelle categorie professionali della salute. «I pazienti, anziani con varie disabilità, hanno invece accettato quasi subito i robot. Sono arrivati perfino a stabilire un rapporto di empatia con questi modelli solo in parte antropomorfi: si muovono su rotelle e hanno volti con tratti stilizzati e occhi lampeggianti che cambiano colore per segnalare situazioni critiche: con il verde va tutto bene, il rosso indica pericolo. Inoltre alcuni anziani hanno trovato molto utile il maniglione di cui sono dotati i robot, al quale possono appoggiarsi per muoversi».
Questo tipo di robot viene programmato o può imparare per imitazione sul posto di lavoro? «La programmazione è ancora l’elemento più importante. Per esempio viene scannerizzato lo spazio in cui si muovono e viene inserito nella memoria dei robot. Ma, se c’è un ostacolo nuovo, lo percepiscono e riescono ad aggirarlo. Questi robot sono in grado di riconoscere situazioni critiche e grazie alle telecamere dietro agli occhi possono trasmettere in streaming. Alla fine, dopo tre settimane di sperimentazione, gli infermieri hanno ammesso di trovarli utili. La prossima frontiera sono i robot collaborativi in grado di riconoscere le emozioni degli umani». E lei ha mai percepito un’emozione robotica? «No. Sono molto sofisticate, ma per me restano soltanto delle macchine».