La Stampa, 2 agosto 2017
È nel Fezzan che passa la frontiera Sud dell’Europa
La missione italiana che si vota oggi in Parlamento contrappone ancora una volta l’Est e l’Ovest della Libia. La narrativa dei conflitti nel Paese si basa su questi due punti cardinali, dimenticando una immensa parte del territorio, il Sud, un’area in cui l’attenzione dell’Italia è cresciuta particolarmente negli ultimi mesi. Il Fezzan, con i suoi oltre 700 mila metri quadrati – per la maggior parte di deserto – è la porta dell’Africa sub-sahariana verso le coste, obiettivo di migliaia di migranti. E i suoi cinquemila chilometri di confine con Algeria, Niger e Ciad – quattro volte la lunghezza dell’Italia – sono diventati la nuova frontiera dell’Europa. Lo sostiene un nuovo rapporto dell’International Crisis Group – How Libya’s Fezzan Became Europe’s New Border – che spiega come nel 2016 oltre 160 mila persone abbiano attraversato quelle rotte per arrivare in Europa.
La parte più critica del confine è quella con il Niger: la principale rotta migratoria passa da Agadez, sale verso Madama, antico forte della Legione straniera oggi base per circa 200 soldati francesi impegnati in operazioni di contro-terrorismo, e attraversa il confine verso le città libiche di Toummo, Qatrun e Sebha. Da qui, la via è aperta verso le coste.
Il Sud della Libia è un problema troppo a lungo trascurato per chi da Roma a Parigi a Bruxelles intende arginare il flusso di migranti. «Lungo il confine Sud-Ovest, le fazioni militari sono divise – spiega Claudia Gazzini, autrice del report dell’Icg -. Il governo di Fayez al-Sarraj, riconosciuto dall’Onu, ha poca presa nell’area e poco margine di manovra sulle fazioni militari. Questi gruppi armati spesso legati a tribù locali tebu o tuareg e intere comunità beneficiano economicamente dal traffico di migranti, in un momento in cui l’economia locale è a pezzi. È difficile riuscire a mettere in piedi un apparato di sicurezza contro il traffico di migranti senza prima risolvere la crisi economica». Nel Fezzan, dove vivono 500 mila persone, il contrabbando – dal carburante alle persone – è cresciuto esponenzialmente dal 2011. Quello di uomini genera presumibilmente 1,5 miliardi di dollari l’anno e, scrive il report, un autista che fa la spola dal confine a Sebha guadagna 125/190 dollari a viaggio: lavorando una volta a settimana prende più di un poliziotto.
Da mesi, l’Italia segnala un interesse crescente per la zona, ma a mancare è un partner libico con un reale controllo della regione. Ad aprile, Roma è stata garante di un’intesa tra le tribù del Fezzan; il ministro degli Esteri Marco Minniti ha contattato o incontrato diverse controparti dei Paesi frontalieri del Sahel, gli stessi che il presidente francese Emmanuel Macron vuole riunire con il sostegno della Germania in un dispositivo di stabilizzazione territoriale (Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania).
«Nelle regioni di frontiera con la Libia, l’intensità di traffico di migranti e terrorismo è tale che c’è spazio per forze supplementari. L’iniziativa di Macron nel rilanciare questo G5 va in questo senso: c’è consapevolezza che la Francia da sola non ce la fa: deve trovare un formato multilaterale, dove possano entrare partner europei, e Macron pensa all’Italia», spiega Jean-Pierre Darnis, dell’Istituto Affari Internazionali.
Mentre si delineano i dettagli della missione italiana in mare, è anche a terra, a un poroso confine sempre più vicino all’Europa, che si deve guardare. «L’Italia dovrebbe avere come scopo la trasformazione dell’economia del Sud della Libia: si tratta di un progetto a lungo termine, e già accettare questo sarebbe un passo importante – dice Gazzini -. Occorre rendersi conto che l’Italia da sola non riuscirà: è il caso di avere una squadra di Paesi e organizzazioni sul campo capaci di coordinarsi per fare del Sud della Libia una priorità tanto quanto la riconciliazione tra Est e Ovest».