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 2017  agosto 01 Martedì calendario

In morte di Jeanne Moreau

Maurizio Porro per il Corriere della Sera
Ci fu un momento in cui fra i 45 giri di massimo ascolto accanto a Mina e Vanoni frusciava Le tourbillon cantata da Jeanne Moreau, dal film che la immortalò, Jules e Jim. Storia di un’utopia sentimentale (volgarmente il ménage à trois), che attraversò il tempo con allegria, ma in realtà senza happy end. L’ attrice e regista (diresse Scene di amicizia fra donne ) e anche cantante (incise due album) è stata trovata morta ieri nella sua casa di Parigi alle 7.30: aveva 89 anni. Nata il 23 gennaio 1928, cresciuta nella Francia occupata, si prese una cotta per Antigone, per il teatro, senza convincere il padre francese con la brasserie, né la madre inglese ballerina. Ma il suo posto era prenotato: Conservatorio, Comédie-Française, Théâtre national populaire.
Primo successo la prostituta di I sotterranei del Vaticano di Gide, seguito dalla regina Margot al cinema. Le tourbillon, appunto. Moreau fu il francobollo di ogni missiva spedita dal cinema francese anni 50-60, sollevò polvere di scandalo alla Mostra di Venezia con Gli amanti, identificandosi ribelle con la Nouvelle Vague, quando il cinema divenne vita e viceversa. Con i suoi prediletti girò almeno tre film, vedi Orson Welles ( Il processo, Falstaff, Una storia immortale ), vedi Losey (il barocco Eva a Venezia, poi La trota e Mr. Klein ), ma certo i suoi veri angeli custodi furono Malle e Truffaut. Il primo, Louis, la mise sull’ Ascensore per il patibolo accompagnato da Miles Davis, poi nel Fuoco fatuo col partner storico Maurice Ronet, infine Viva Maria! in coppia scherzosa con Bardot, miti francesi contrapposti; il secondo, François, dopo Jules e Jim, che rimase negli annali del cuore, la volle vendicativa Sposa in nero. Pur con poche esperienze americane ( Il treno di Frankenheimer), il suo terreno di cultura fu il cinema europeo, quello delle ambiguità, delle pause, delle solitudini, degli occhi pieni di tutto e nulla, tanto che Antonioni la scelse per La Notte nel deserto milanese del ’60 (famosa camminata dallo studio Bompiani di via Senato a Sesto) ma si sa che non scoppiò l’intesa. Poi con Roberto Andò per Il manoscritto del principe scese in Sicilia: l’intesa ci fu.
I festival l’hanno ammirata per come aveva ogni volta capito l’essenza di un modo di fare cinema insediandosi nella coscienza dei registi, magari scherzando con Godard che la rese una comparsa nella Donna è donna. Venezia le dà il Leone d’oro nel ’92, l’Orso nel 2000 a Berlino, il César nel ’95; fu l’unica non solo a vincere la Palma a Cannes nel ’60 per Moderato cantabile di Brook, ma a dirigere due volte la giuria (’75 e ’95). Tantissime Moreau, ma conservando il copyright di quel suo volto che ogni volta si disfaceva un poco ma era sempre un annuncio di ricerca di affetto: un po’ come la Magnani, meno naïf, ma con le stesse amicizie, Henry Miller e Tennessee Williams.
Sposata nel ’49 con Jean Louis Richard, nel ’77 fu moglie dell’americano Friedkin ( L’Esorcista ), ed ebbe una relazione con Tony Richardson in Redgrave che la diresse in E il diavolo ha riso. Non c’è Autore, da Fassbinder (l’ultimo, Querelle ) a Wenders, da De Oliveira ( Gebo e l’ombra ) ad Angelopoulos, che non l’abbia amata per quello che ha rappresentato: ogni volta portava in scena tutta la sua carriera, tutti i suoi viaggi del cuore. Con Vadim furono Relazioni pericolose ma non si vergognò di regalare ruspanti rughe alla nonna di Il tempo che resta di Ozon o di fare la maestra in Nikita di Besson.
Battagliò per i gay, di cui fu icona, e fu due volte al centro di amori ancillari: memorabile con Buñuel nel Diario di una cameriera, fantastica a teatro nella Serva Zerlina di Hermann Broch diretta da Grüber, al Piccolo di Milano nell’87. Proprio questa passione teatrale suggerì di doppiarla spesso da grandi dame del palco (lei che della dama era il contrario!) come Pagnani, Morelli, Valeri, Occhini.

Paolo Mereghetti per il Corriere della Sera
Gran donna! Così un amico che ne capisce sintetizzava il dolore per la morte di Jeanne Moreau andando subito al di là della carriera – pur straordinaria – per sottolineare una carica umana che nessun ruolo era riuscito a esaurire. Di personaggi ne aveva interpretati più di 140, con alcuni dei più grandi registi di sempre – Malle, Truffaut, Welles, Antonioni, Losey, Buñuel – eppure in tutti i film lei veniva sempre prima, la donna davanti all’attrice, quintessenza di una femminilità che solo un cinema davvero moderno poteva riuscire a mostrare e raccontare. Non è un caso se ci sia voluta la Nouvelle Vague per imporla: il suo volto così «difficile da fotografare» (Duvivier dixit) esplose sullo schermo di Ascensore per il patibolo e cancellò in un attimo dieci anni di vecchio cinema, nonostante lo schiaffo che le aveva assestato Gabin in Grisbì. E subito dopo sarà il suo corpo a fare scandalo in Les Amants, rivelando una sensualità che superava i confini della finzione. Jeanne Moreau portava tutta se stessa nei suoi film – «fare un film non è più uno stile di recitazione, è uno stile di vita», dichiarò nel 1965 ai Cahiers – e aveva bisogno di registi che fossero disposti ad accoglierla senza volerla cambiare. Come Truffaut, naturalmente, che in Jules et Jim ne fece l’innocente campione dell’anticonformismo, capace di non perdersi dans l’tourbillon de la vie (nel turbine della vita), come cantava con quella sua inconfondibile voce «misto di stanchezza e sensualità, solennità e scherzo» (per usare le parole di Ginette Vincendeau). La vedevi in un film e ti sembrava di incontrarla nella vita, tanto quei due mondi si intrecciavano intimamente. A tenerli insieme, una serie di scelte professionali che mettevano la curiosità e gli incontri prima di ogni considerazione di carriera e dove il teatro poteva tenerla impegnata per anni se nessun film la stimolava. Oppure, all’opposto, accettava di fare la «tardona» a 46 anni in I santissimi, dove spiazzava Depardieu con una battuta che fu subito cult: «Ça vous dirait de coucher avec une vieille?» (Cosa ne direste di venire a letto con una vecchia?). Non a caso, nel 1995 quando – unica donna – fu chiamata per la seconda volta a presiedere la giuria di Cannes, a una giornalista che le chiedeva un aggettivo per autodefinirsi, rispose: «intègre». I compromessi non erano per lei!

Irene Bignardi per la Repubblica
ROMA La sua faccia – affascinante più che bella certo non classicamente disegnata -- sarà ricordata come il simbolo e la sintesi di quella stagione gloriosa del cinema che fu la Nouvelle Vague. Un simbolo e una sintesi che coniugano l’allegra e disperata follia giovanile del Truffaut di Jules e Jim e le femmes fatales di Louis Malle di Ascensore per il patibolo e di Les Amant, e che annunciano, insieme, la provocazione messa in atto dal cinema dei ragazzi di quegli anni alle istituzioni, alle convenzioni dei generi, alla tradizione del cinema, al cinéma de papa..
Jeanne Moreau, che ci ha lasciato ieri a Parigi all’età di 89 anni, era invecchiata, certo, com’è naturale. Ma era una bellezza senza età perché, come un’altra grande attrice non convenzionalmente bella, Bette Davis, aveva puntato da subito sul fascino più che sulla bellezza, sull’intelligenza più che sulla freschezza, sullo charme più che sulla perfezione dei lineamenti (e a proposito di Bette Davis, di questa “donna straordinaria”, ricordava che condividevano lo stesso agente americano, e che la divina Bette protestava con lui:” Non ne posso più di questa Jeanne Moreau”).
E non è certo un caso se, proprio per queste qualità anticonvenzionali e per il prevalere del gusto e dell’intelligenza, Jeanne Moreau è stata l’attrice di Truffaut e di Malle e la musa della stagione della Nouvelle Vague; ma, nel corso degli anni e nelle stagioni di miglior cru, anche di Bunuel e di Antonioni, di Losey e di Becker, di Ophuls e di Tony Richardson, di Welles e di Kazan, di Fassbinder e Wenders. Formidabile, temibile, dura. Ma anche seduttiva, fascinosa, morbida. Pronta a scattare implacabile. Professionista, dicono, impeccabile. Donna di amicizie durature e selezionate (Cocteau, Genet, Henry Miller, Marguerite Duras), di grandi amori (Truffaut, Malle,Tony Richardson, Pierre Cardin), due volte sposata, a Jean-Louis Richard e a William Friedkin. Regista lei stessa di film non memorabili ma interessanti ( Lumière, L’adolescente).
Protettrice e promotrice entusiasta di giovani attrici: “una go between, si raccontava, una persona che mette in contatto gli altri”.
Figlia di una ballerina inglese delle Folies Bergéres e di un ristoratore di Montmartre, studentessa del Conservatoire, Jeanne Moreau era nata col e per il teatro, ed era diventata in breve tempo, dal 1947, la regina della Comédie-Française e poi del Thèatre National Populaire. Ma nel 1958 il cinema l’aveva conquistata, e lei aveva conquistato il cinema, con Ascensore per il patibolo, dove aveva incarnato l’epitome della bella donna borghese senza scrupoli e pentimenti. Era entrata nel cuore dei cinefili che ancora non sapevano di essere tali con la sua Catherine, fedele e infedele, al centro del più celebre triangolo amoroso del cinema, in Jules et Jim. Aveva incantato tutti cantando con la sua voce bassa sensuale e allusiva Le tourbillon de la vie. Aveva infilato di gran carriera la via, per lei in discesa, del grande cinema d’autore, vantandosi di aver capito che le cose da fare andavano scelte sulla base di “con chi” le facevi.
Da La notte, nel 1961 (solo lei avrebbe potuto fare quella eterna passeggiata per Milano senza sembrare una matta), a Il processo di Orson Welles, a Campanadas a medianoche, ma soprattutto a Storia immortale, dove incarna una prostituta che rivive un sogno d’amore; dalle atmosfere perversamente eleganti di Diario di una cameriera di Bunuel al noir dei noir, La sposa in nero di Truffaut; da Eva di Joseph Losey, a Nikita di Luc Besson, in cui dà alla giovane protagonista una grandiosa e cinica lezione di vita, attraverso più di cento film, decine di spettacoli teatrali, film realizzati da regista, Jeanne Moreau ha dimostrato la sua capacità di scegliere. Che forse negli ultimi anni si era andata un po’ opacizzando.
Ma lei, la signora dalla voce conturbante e dalle rughe fieramente esibite, continuava a fidarsi, a tentare, a esistere. Il cinema, aveva detto una volta con una di quelle frasi che solo in francese si possono pronunciare senza il rischio di sorridere, il cinema “est une douleur exquise”, il cinema è un dolore squisito. E di questo dolore squisito fa parte il suo essere stata una “spettatrice appassionata del mondo”.

Fulvia Caprara per La Stampa
L’aveva detto tante volte, sicuramente ci è riuscita: «Sono stata una ribelle per tutta la vita e spero di continuare a esserlo fino alla fine». Scomparsa ieri a Parigi nella casa in Rue du Faubourg Saint Honoré, a 89 anni, Jeanne Moreau resterà per sempre la musa sensuale della Nouvelle Vague, la ragazza anticonformista amata da due uomini in Jules et Jim, la diva europea prediletta da Orson Welles, la donna intelligente che nella lista dei valori ha saputo mettere prima l’indipendenza e poi la bellezza, prima la cultura e dopo la popolarità: «Non ho mai voluto avere un percorso professionale, una carriera. Sono semplicemente una donna, una donna artista».
La passione è stato il faro della sua vita, il segreto che l’ha mantenuta vigile fino all’ultimo. Da quando decise di iscriversi al Conservatorio al primo, breve, matrimonio con il regista Jean Louis Richard, padre del figlio Jerome. Dall’esordio con la Comédie Française nel ’50 all’incontro cruciale con Louis Malle che la dirige in Ascensore per il patibolo: «Ci siamo visti alla Closerie des Lilas, è stato magnifico. Era primavera, eravamo su una terrazza all’aperto quando si è scatenata una tempesta di straordinaria violenza. Rifletteva l’atmosfera del film che avremmo fatto, ma anche del nostro incontro, sul piano personale e lavorativo».
Una strada segnata
La strada di Jeanne Moreau, figlia di un famoso ristoratore di Montmartre e di una ballerina delle Folies Bergère, era ormai segnata. Dopo Malle, vennero Truffaut e poi Jean-Luc Godard, Joseph Losey, Luis Buñuel, Michelangelo Antonioni, Elia Kazan, Wim Wenders, Werner Fassbinder, Theo Angelopoulos. I migliori del mondo, stregati, uno a uno, da quel misto irresistibile di malinconia e sfrontatezza, sguardi indecifrabili e bocca sensuale, corpo morbido e piglio indomito: «Ho avuto la fortuna di arrivare in un periodo in cui gli autori hanno iniziato a interessarsi alle donne in un modo nuovo, rifiutando gli stereotipi e cercando di scoprire l’interiorità».
Fortuna vicendevole. Ricambiata anche da un personaggio come Welles che l’aveva resa sua speciale confidente: «Dovevamo girare un film, ma, per motivi economici, non si riusciva a iniziare. Eravamo tutti in albergo, lui non si faceva vedere né mi chiamava, non sapevo nulla di quello che sarebbe accaduto, osservavo solo la cenere del suo grande sigaro posarsi sul terrazzo della mia stanza». Poi, però, quando l’autore seppe che Moreau voleva diventare regista «fu l’unico a dirmi che mi avrebbe sostenuta».
Intrecciati con gli oltre cento film, le decine di spettacoli teatrali, i cinque dischi, le due prove dietro la macchina da presa e la cascata di riconoscimenti internazionali, hanno avuto peso, nell’esistenza di Moreau, gli amori fiammeggianti, con Malle, con William Friedkin, e anche con Pierre Cardin che a Paris Match dichiarò: «Ero omosessuale, non avevo rapporti fisici con le donne. Jeanne mi ha sconvolto». E poi le letture, le profonde intese intellettuali con autori come Jacques Cocteau, André Gide, Peter Handke, Henry Miller, Anaïs Nin, François Sagan e Marguerite Duras, interpretata da Moreau nel film di Josée Dayan Cet amour-là.
All’appuntamento più difficile, quello con la vecchiaia, Moreau era arrivata forte, bellicosa, consapevole. Sfoggiando look originali e rughe impietose: «Oggi guardo le cose con più distacco, posso dire che sono cresciuta e che, in fondo, non ho lavorato troppo male». Per Jeanne Moreau, sbocciata negli Anni Sessanta, il femminismo non era mai stata una bandiera da sventolare. «Per interpretare una donna non ci vuole coraggio, il coraggio è necessario per vivere da donna».

Federico Pontiggia per il Fatto Quotidiano
La congiunzione più celebre della Settima Arte. Il vertice del triangolo e, insieme, l’anello che non tiene. Prima di quel film ineludibile, ce ne sono altri due che proprio non si possono scordare. Ne ha già realizzati 19, dai primi anni ‘50, quando Louis Malle le chiama l’Ascensore per il patibolo. Jeanne Moreau non ha ancora trent’anni, e non ha ancora avuto un ruolo da protagonista: alla prima occasione, rifiuta il make-up, scommette su se stessa e si prende tutto, coniugando al futuro presente il femminismo e declinando a sua immagine e somiglianza un femminile non allineato né contenibile. Ci fa e ci è. Ha una bocca che può dire tutto, occhi indicibili e una voce roca di Gauloises o Gitanes che è già, in un’epoca in cui in sala si poteva fumare, parte per il tutto cinematografico. Lei e Malle lo stesso anno concedono il bis, che è situazione sentimentale confessa: Gli amanti.
Nel primo, Jeanne progetta con l’amante di uccidere il marito; nel secondo, si mette a (quasi) nudo e cerca gratificazioni fuori dal matrimonio. Qualcosa si paga: il regista Malle apprezza, l’uomo Malle assai meno, e la relazione esce di carreggiata. C’è chi prende subito il testimone, cinematograficamente parlando. L’ebbe già in piccolo nei 400 colpi, ma ha questi ruoli in testa François Truffaut quando la vuole per Catherine, ovvero l’ineffabile et di Jules et Jim, il lascito testamentario stesso della Nouvelle Vague, anno 1962. Catherine è la statua e l’incidente – rispettivamente, il ricordo di e la causa di – e sono attribuzioni facilmente estendibili oltre i 105 minuti di pellicola, prelevabili dalla finzione e trasferibili a Jeanne stessa: la Moreau è statua e incidente, ossia tempo e movimento, icona e accadimento, consapevolezza e stupore. In un’epoca di rivoluzione sostanziale e cambiamenti repentini ha saputo assorbire e indirizzare, accompagnare e guidare, senza farsi superare mai: non ha nemmeno bisogno di dirsi, di comparire, perché c’è e, come in quell’et, fa e disfa. Agli altri, Jules e Jim, il titolo, a lei la sostanza: di Oscar Werner (Jules) e Henri Serre (Jim) ci siamo ampiamente dimenticati, Jeanne la piangiamo 55 anni dopo.
Se n’è andata 89enne, ieri a Parigi, e il cordoglio dell’Eliseo non è peregrino: “Scompare un’artista che incarnava il cinema nella sua complessità, la sua memoria, la sua ambizione”. Di memoria e ambizione, Jeanne ha dato un ritratto mutevole e formidabile, appassionante e sfidante: che canti (Le Tourbillon) e si travesta da uomo in Jules et Jim, che incarni la femme fatale Eva (Joseph Losey, 1962) o si faccia baciare gli stivali dal boss feticista del Diario di una cameriera (Luis Buñuel, 1964), che sia La grande peccatrice (Jacques Demy, 1964) o la seducente signorina Burstener a Processo (Orson Welles, 1962), la Moreau è superiore alla somma delle sue parti, e non per mancanza di generosità o timida applicazione. È nello scarto irredimibile tra personaggio e persona, la sua, che si costruisce e custodisce lo status iconico: Jeanne Moreau, e solo lei.
Ha lavorato con i grandi, senza mai mandarle a dire. Anche al nostro Antonioni, per cui percorse errabonda le strade di Milano ne La notte (1961): “Non c’era comunicazione tra lui e me”. Che, tra le altre cose, è una condivisibile esegesi dell’opera di Antonioni. Figlia di un ristoratore di Montmartre e di una ballerina inglese, nata a Parigi il 23 gennaio 1928, si iscrisse al Conservatoire de Paris. Nel 1947 il debutto sul palco di Avignone, poi la Comédie Française e nel 1951 il più sperimentale Théâtre National Populaire di Jean Vilar. Nel 1960 il premio come miglior attrice a Cannes per Moderato cantabile di Peter Brook, sette anni più tardi il passaggio dietro la macchina da presa con Scene di un’amicizia tra donne, cui seguiranno L’adolescente (1979) e il documentario su Lillian Gish (1983). Molti i riconoscimenti ricevuti, dal Leone d’oro alla carriera nel 1992 all’omologo berlinese del 2002, non sono affatto trascurabili le doti canore, di cui ha dato dimostrazione sullo schermo per Truffaut e Reiner Werner Fassbinder (Querelle de Brest), e le regie teatrali. Tra i sodalizi artistici quello con Marguerite Duras, trasformato in Nathalie Granger e ne L’amante, nonché quello tv con Josée Dayan, arrivato fino al 2011 per La Mauvaise Rencontre, mentre sul versante sentimentale aveva una qualche predilezione per i colleghi: oltre a Malle, William Friedkin, cui fu sposata dal 1977 al

1979. Se ne innamorarono in molti, persino il gay Pierre Cardin, e come altrimenti?

Mariarosa Mancuso per Il Foglio
Ricorda che la truccavano come un mascherone – lei veramente dice “comme un Sioux”. E che la costringevano a stare immobile davanti alla macchina da presa, una volta sistemate le luci, per correggerle i difetti del volto. La relegavano in ruoli da caratterista – avventuriera o rovinafamiglie, le buone dovevano avere la faccia d’angelo – lei che aveva già conquistato i palcoscenici della Comédie Française. “Brava, ma troppo difficile da inquadrare”, sentenziò il regista Julien Duvivier. Cambiò tutto con la Nouvelle Vague, quando le attrici si truccavano da sole e andavano sul set con i propri vestiti.
In “Jules et Jim” di François Truffaut, anno 1962, porta un maglione informe, scarponcini, un cappello a scacchi con visiera, ha i baffi disegnati sul labbro e resta incantevole. Oltre che pericolosa, come dicono le parole della canzone, dopo il prendersi, il lasciarsi e il meraviglioso “on s’est rechauffés”: “Une femme fatale qui m’fut fatale” (non è spoiler: se non sapete che finisce con una macchina giù da un ponte, serve un ripasso dei fondamentali).
In una foto celebre finge di suonare la tromba, sotto l’occhio di Miles Davis che aveva composto la colonna sonora di “Ascensore per il patibolo”, diretto da Louis Malle nel 1958 (neanche lì si vedono difetti, solo un gran fascino). Il suo agente le disse “ti rovini la carriera, lavorando con quello”. Jeanne Moreau accettò il rischio – anche di innamorarsi del regista debuttante. Ne uscì un claustrofobico noir, variazione sul classico motivo del “postino che suona sempre due volte” (il giallo di Noël Calef è uscito da Sellerio). Gli amanti architettano un piano per simulare il suicidio dell’incomodo marito, sennonché il custode del palazzo toglie la corrente, bloccando in ascensore l’assassino tornato per riprendersi la corda. Aveva il giusto tocco di esistenzialismo per diventar subito un classico, battezzando un regista e una star.
“‘Les amants’ fu il regalo di addio da parte di Louis Malle”, dice ancora Jeanne Moreau, che vanta un bel carnet di amori coltivati con discrezione (tra i corteggiatori, lo psicoanalista Jacques Lacan; tra i mariti, William Friedkin; tra le passioni, Toni Richardson che lasciò per lei Vanessa Redgrave). La protagonista, già fornita di marito e di amante, partiva con un terzo giovanotto appena conosciuto. Con strepitosi cappellini e senza schiantarsi dopo la prima curva (alla Mostra di Venezia, nonostante lo scandalo, vinse la Coppa Volpi per la migliore attrice).
Ricco anche il carnet di registi. Oltre a Louis Malle, Luis Buñuel che la volle nel “Diario di una cameriera”, con calze nere e reggicalze da perderci il senno, Orson Welles che la volle per “Storia immortale”, tratto da un racconto di Karen Blixen (il più geniale e astuto mai scritto, sull’arte di raccontare storie). Niente male per una ragazza che si era incapricciata del cinema ascoltandolo con l’orecchio attaccato alla parete – la casa dei genitori a Pigalle confinava con un cinematografo.
Devono annoiarsi, lassù nel paradiso dei lavoratori dello spettacolo. Si sono stancati della solita compagnia, oppure hanno un sense of humor tutto loro. Giusto dieci anni fa morirono a poche ore di distanza Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni (con lui Jeanne Moreau girò “La notte”, raccontò che non fu mai pagata).
Sta lassù da ieri anche Sam Shepard, attore, commediografo – una quarantina di titoli – e scrittore premiato con il Pulitzer. Le rughe più fascinose del cinema americano, non c’è gara neppure con Robert Redford (che ritirerà a Venezia il Leone d’oro alla carriera). Anche Mr. Shepard vanta carnet di tutto rispetto. Ha lavorato con Bob Dylan, collaborando alla sceneggiatura di “Renaldo and Clara”, diretto dal premio Nobel. Ha fatto l’attore per Terrence Malick quando il regista era bravo e molto promettente (“I giorni del cielo”, 1978). Ha recitato da patriarca nella serie “Bloodline” per Netflix. E’ stato fidanzato con Jessica Lange e con Patti Smith.