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 2017  luglio 29 Sabato calendario

Mozart è rock. L’enfant terrible Teodor Currentzis. «La vera classica è estasi, non relax»

SALISBURGO «Non credo al chocoMozart creato per compiacere i turisti», sbuffa Teodor Currentzis mentre si appresta a dirigere il Requiem (che ascolteremo il 30 agosto a Ravello) alla Felsenreitschule di Salisburgo, in apertura del prestigioso festival. Quest’anno il direttore d’orchestra greco di stanza a Perm, esule volontario negli Urali con il suo inseparabile laboratorio- ensemble MusicAeterna, è protagonista assoluto con un programma che comprende anche La clemenza di Tito con la regia di Peter Sellars, che insieme al nostro Romeo Castellucci («Abbiamo tre progetti in corso, tra cui una Giovanna d’Arco») e a Robert Wilson è uno dei complici preferiti dell’enfant terrible della classica. Ha 45 anni, un ragazzone con il viso di un Rimbaud maladive, ancora giovane per il compito che l’attende. Di lui scrivono: “Direttore d’orchestra con un’attitudine punk”. La definizione lo fa sorridere, ma non rinnega la sua anima di rocchettaro infatuato di Mozart, «il più rock e contemporaneo di tutti i compositori». Tanto che la trilogia Mozart-Da Ponte ( Così fan tutte, Le nozze di Figaro e Don Giovanni) che ha inciso con la consueta maniacale perfezione per Sony Classical, ha sollevato un coro di apprezzamenti come non se ne sentivano da mezzo secolo. «Dovrei esserne felice», taglia corto Currentzis, «ma raramente sono soddisfatto. Sono partito per una missione solitaria che nessun altro avrebbe potuto portare a termine. Il punto è questo: se c’è una musica che è già stata eseguita alla perfezione, non c’è motivo che io la suoni di nuovo. Voglio lavorare su quello che credo non sia stato fatto correttamente. Dello status me ne frego, di fare il testimonial della Rolex altrettanto».
Ci sono giovani che si scatenano come a un concerto rock durante l’esecuzione della “Sagra della primavera”.
«La risposta è già nella sua domanda, vuol dire che il rock è più onesto della classica. Come ci suggerisce Lorca, senza duende l’arte è niente. Prenda un ballerino di flamenco, in pochi gesti esprime tutto: anima, vita, amore, morte. La musica classica deve recuperare questa forza, non è sottofondo per ristoranti, ascensori o jacuzzi. Hanno ucciso l’esperienza estatica dicendo bestialità tipo “la musica classica rilassa e distende”: è diventato come fare l’amore senza arrivare all’orgasmo. Io sono qui per riportare il duende, per recuperare la trascendenza, lo spirituale nell’arte (proprio come nel manifesto di Kandinsky del 1910, ndr), affinché chi assista a un concerto si senta coinvolto. Diversamente quattro ore di opera diventano una condanna».
Forse abbiamo trascurato l’idea dell’arte sublime. Lei usa spesso la parola “estasi”, che oggi sembra obsoleta. Tutto si misura in termini di visibilità e successo.
«Questo è il problema. Se parli con un ragazzo, l’estasi è solo una droga. Credo che fra cent’anni molte parole del nostro vocabolario spirituale saranno scomparse. La gente non ballerà più, non parlerà più, comunicherà soltanto via internet. Tutto transita attraverso la rete. Usiamo sempre meno la memoria, Wikipedia è il nostro archivio mentale. La comunicazione è un fantasma, e così diventeremo incapaci di amare, lo faranno i robot per noi. Internet ci sta condannando alla libertà dell’isolamento».
Neanche l’arte ci salverà?
«Solo l’arte pura, non quella che trasformiamo in materia commerciale, che deperisce in qualità e perde il suo spirito. Messa in vendita, l’arte diventa inespressiva. Mi fa pensare al corpo di mio padre morto – ero scioccato, non era lui, rigido, freddo, immobile. Come lo spirito che anima il corpo, un concerto senza cuore, lacrime e sangue è solo un esercizio di stile».
Quanto è stato importante per lei conservare uno spirito “indie”, per usare un termine più in sintonia con il rock che con la classica?
«Non c’è altra scelta se vuoi tenerti alla larga dal mainstream. Vale per la musica e per tutte le altre manifestazioni artistiche, cinema (c’è altro cinema di qualità oltre quello indipendente?), teatro, danza. La mia più grande paura è cadere nella trappola. Quando vedo che le cose vanno bene, che tutti scrivono di me cose lusinghiere, incomincio a pormi mille domande. Non m’interessa il successo senza l’autostima».
La Russia è stata la sua ancora di salvezza, prima a Novosibirsk con la formazione di MusicAeterna, poi il trasferimento a Perm.
«All’inizio è stata una casualità, cominciai ad avere successo a Mosca, una splendida vita da bohémien. Poi mi chiamarono a Novosibirsk, dove c’è il più grande teatro d’opera del mondo, un’orchestra fantastica. Lì misi in piedi la mia prima grande produzione, Aida con la regia di Dmitri Tcherniakov – uno scandalo per i melomani, un capolavoro per gli intellettuali. Il sovrintendente mi chiese di diventare il direttore musicale del teatro, io posi le mie condizioni, come avrei sempre fatto da quel momento in poi: creare un coro e un’orchestra con strumenti storici che avrei chiamato MusicAeterna. Così cominciai a reclutare giovani per il progetto. Fu l’inizio di tutto, ho ancora la nostalgia di quel periodo folle in cui provavamo dodici ore al giorno».
È quel che fate ancora a Perm: MusicAeterna è ormai una comune leggendaria.
«Oggi l’attività è anche più frenetica, siamo coinvolti in mille iniziative diverse, sono diventato persino più esigente, posso provare per sei ore un solo accordo, riflettere sulle frequenze, meditare con i musicisti. Non ho più tempo per quei momenti di euforia quando, distrutti dalle prove, ce ne andavamo a vedere un film di Dreyer o Bresson col bicchiere in mano».
Tutti i critici sono concordi dopo aver ascoltato la trilogia mozartiana, il suo approccio è rivoluzionario. O è l’unico modo di avvicinarsi a Mozart?
«Ha già risposto lei. Ai critici dico: perché rivoluzionario? Forse perché nel Novecento hanno cercato di rendere la musica classica più rilassante, per usare un termine tanto caro ai discografici, anche quando si trattava di Mahler o Tchaikovsky!?».
Gli impegni la portano sempre più spesso lontano da Perm. Cosa farebbe se la chiamassero al Met o al Covent Garden?
«Ho bisogno di lavorare con i rivoluzionari, con gli artisti che vengono dalle barricate, animati dal più genuino spirito romantico. Che domanda! Ovvio, rifiuterei. Non sono fatto per i compromessi».
Alla fine dell’intervista ci invita a una prova con il coro nella Kreuzkapelle. «Sarà indimenticabile», si esalta, «ascolterà la miglior composizione per coro del Ventesimo secolo, scritta da Alfred Schnittke. Esprime la battaglia interiore tra due nature, quella divina e quella animale, che c’è in ognuno di noi. L’armonia è l’accettazione delle due nature». Le prove si dilungano fino a tarda notte: coro a cappella su composizioni di Purcell, Ligeti, Stravinsky, Nystedt (alcune in programma al Ravello Festival). Il coro solleva l’ascoltatore, lo fa volare come un drone sopra le cose; vede le tombe che si scoperchiano, le anime che rientrano nei loro corpi e si preparano per il Giudizio. E noi per l’estasi.