la Repubblica, 29 luglio 2017
In missione nell’ambiguità di Tripoli dove tutti lottano e nessuno comanda
ROMA L’ambiguità con cui il premier Fayez al Serraj ha presentato al suo paese la missione tricolore in acque libiche dovrebbe metterci subito sull’avviso. Nella nostra storia coloniale equivoci e malintesi negli accordi bilaterali ci hanno sempre causato i guai peggiori, trasformando gli alleati nei nemici più accaniti. Accadde con l’Etiopia nel 1889, aprendo la marcia verso la disfatta di Adua. L’errore si è poi ripetuto nel patto con il futuro re Idris in Cirenaica nel 1920, sconfessato con la sanguinosa riconquista fascista della “Quarta Sponda”.
Da allora in Libia la resistenza agli italiani è l’unico elemento identitario nazionale, l’unico passato condiviso che unisce dozzine di tribù divise su tutto. Se ne è servito Muhammar Gheddafi per forgiare la propaganda del regime ma viene esaltato pure dalle milizie che lo hanno abbattuto. Il dittatore si presentava davanti a Silvio Berlusconi esibendo sul petto la foto di Omar al-Mukthar, il “Leone del deserto” impiccato dal generale Graziani; il figlio quasi centenario di quell’eroe oggi è il venerato simbolo dell’orgoglio cirenaico.
Già, ma chi comanda in Libia? Tutti e nessuno. Noi stiamo per entrare nelle acque territoriali su richiesta di Fayez al Serraj, leader del governo riconosciuto dall’Onu che però controlla poco o nulla. D’altronde è stato scelto proprio per questo, come una sorta di minimo comune denominatore fuori dai giochi. E che adesso sopravvive camminando sul filo degli schieramenti.
Molti pensano che il premier abbia invocato “il sostegno tecnico” della flotta italiana per puntellare il suo fragile potere, visto che francesi e americani hanno spostato gli equilibri in favore del rivale Khalifa Haftar, signore della guerra dei territori orientali, con un’armata sponsorizzata da Egitto ed Emirati che però fatica a imporsi sul campo. In Tripolitania Haftar può contare sulle efficienti brigate Zintan, schierate sul confine tunisino e nella fascia desertica a nord di Sebha, che nel 2012 diedero il colpo di grazia al regime. Giovedì con una parata a Zintan hanno annunciato la fine dell’addestramento di 1200 nuovi cadetti, pronti per i prossimi impegni: sono loro a dominare le due strade chiave per il traffico di migranti, un business lucroso minacciato ora dall’intervento italiano.
LE FORZE DI MISURATA
Serraj ha un unico alleato di peso: le forze di Misurata, a cui gli americani la scorsa estate si sono rivolti per cancellare la roccaforte dell’Isis a Sirte. La battaglia è stata lunga e feroce, ma ha consacrato il ruolo di questa consorteria di truppe addestrata da commandos europei e sostenuta pure dall’Italia.
Mentre il premier viaggiava tra Parigi e Roma, il suo vice Ahmed Maitig ha pensato bene di prepararsi al peggio e decretato un premio straordinario ai guerrieri di Misurata: cento milioni di euro, pari a circa 3.000 euro per ognuno dei 30 mila combattenti che hanno sconfitto il Califfato di Sirte. Maitig, un imprenditore molto legato al nostro Paese, ha anche promesso risarcimenti alle comunità che vivono intorno all’aeroporto di Tripoli, epicentro degli scontri negli ultimi tre anni. Insomma, una pioggia di denaro per consolidare la fedeltà di pedine strategiche. Stando alla stampa locale, Fayez al Serraj non ha gradito l’attivismo del suo vice e lo ha redarguito: spetta a lui autorizzare qualunque spesa. Anche in questo caso, non è chiaro se si tratti di un gioco delle parti. Ma in Libia la verità è merce rara.
I BOMBARDAMENTI AI DEPOSITI
L’unica cosa che abbonda sono le armi, d’ogni tipo. Ogni settimana ci sono bombardamenti misteriosi da parte di caccia non identificati. Sia Haftar che i misuratini hanno squadriglie di Mig, ma pure gli stormi egiziani ed emiratini sono presenti nei cieli libici. Nella capitale a giugno ci sono state vere battaglie, con tank e cannoni, e tutti i giorni si registrano agguati e regolamenti di conti: giovedì è stata devastata una radio che trasmette versi del Corano e hanno cercato di rapire un dirigente del ministero dell’Educazione. E uno studente minorenne è stato sospeso perché si è presentato agli esami puntando una pistola sui professori. Non a caso, tra le motivazioni della missione italiana c’è anche quella di proteggere la guardia costiera locale dalla superiorità di fuoco degli scafisti, che più volte hanno sparato sulle vedette di Tripoli con mitragliere e cannoncini.
Il cuore della questione è semplice. L’industria dei migranti è il business migliore dei signori della guerra libici, affamati di guadagni. Basteranno gli “aiuti allo sviluppo” promessi da Roma e da Bruxelles a placarne gli appetiti? I capi tribali però non sono solo avidi, ma anche orgogliosi. E se i boss dei traffici riusciranno a propagandare l’arrivo delle navi italiane come “un’invasione”, allora gli altri leader non si tireranno indietro, per timore di perdere la faccia davanti alle loro comunità. Una minaccia che il governo Gentiloni ha compreso, scegliendo un esordio a bassa visibilità per la spedizione più insidiosa dell’ultimo decennio.