la Repubblica, 30 luglio 2017
Intervista a Elio Pecora
Una vita raccontata non è mai come una vita vissuta, ma una vita vissuta senza un racconto che vita sarebbe? Guardo la compostezza di Elio Pecora – saggista, scrittore, poeta – e mi rendo conto che egli somiglia all’“amico involontario”, l’amico che non ti cerca, che non ti promuove, che non sparisce perché da sempre è sulla soglia di un’uscita di emergenza. È strano. Conosco Elio da tantissimi anni ma è come se non avessi mai messo a fuoco la sua figura, se non nei contorni dai margini sfuggenti. Mi appare oggi sotto una luce diversa, soprattutto dopo aver letto Il libro degli amici ( Neri Pozza), una storia senza risvolti permalosi, senza rancore né vendette postume, ma con qualche punta di spietatezza sulla Roma letteraria tra gli anni Sessanta e l’omicidio di Pasolini: «È come se quel mondo, imborghesito, improvvisamente si fosse risvegliato dall’orrore delle proprie abitudini», dice con la voce cantilenante e un po’ incantatrice.
Tu dov’eri quando morì Pasolini?
«A casa, mi telefonò Moravia chiedendomi di accompagnarlo all’Idroscalo di Ostia. Alberto sprofondava nella disperazione. Non trovammo più il corpo ma solo i segni sulla sabbia di qualcosa che era stato rimosso. Notai la confusione, il disordine. Crebbero rabbia e sconforto. Poi il silenzio. Cosa potevo dire se non che quella città, così amata e indicidibilmente bella, spazzando ogni illusione, improvvisamente mi era diventata estranea».
Quando ti trasferisti a Roma?
«Nel 1966, fuggii da Napoli, una prigione dorata, vissuta tra gli anni dell’infanzia e l’università. Roma fu libertà e allegria. Trovai quasi subito un lavoro alla libreria Bocca di via Veneto. Nel 1968 trascorsi alcuni mesi in Germania dove scrissi il mio primo romanzo. Poi tornai a Roma. Il dattiloscritto finì tra le mani di Rodolfo Wilcock».
Un personaggio non facile.
«Per niente. Un misto di sarcasmo e snobismo argentino, la sua patria di origine».
E vi incontraste?
«Fu il figlio adottivo a dirmi che voleva conoscermi. Viveva in una casa, che dico casa, un’abitazione abusiva dalle parti del Mandrione, una zona a sud di Roma popolata da zingari e puttane. Notai una grande poltrona di pelle sdrucita, moltissimi libri e oggetti delle più diverse specie, frutto dei suoi vagabondaggi tra le discariche dell’Appia Pignatelli, dove amava passeggiare. C’era anche un enorme cane i cui peli si erano depositati ovunque».
Non era proprio un salotto romano.
«Wilcock non aveva nulla dell’intellettuale romano, possedeva grandissime competenze botaniche e zoologiche. Credo che in un’altra vita fosse stato ingegnere. Parlava poco del suo passato. Una volta accennò al fatto di aver vissuto per lungo tempo a Londra, mantenendosi come impiegato in un’azienda di telefoni».
Non ti disse perché aveva lasciato l’Argentina?
«No, mi parlò in un paio di occasioni dell’amicizia con Bioy Casares e Silvina Ocampo, e quando la coppia venne a Roma lui la incontrò spesso. Se ne prese cura. Aveva uno strano modo di accogliere le persone che gli piacevano».
A chi pensi?
«Anche a me. Ho abitato per qualche mese in una specie di cubo di cemento che Wilcock aveva fatto costruire adiacente a una casa che possedeva a Velletri. Me l’offrì dopo che avevo deciso di lasciare la mia abitazione romana».
Come interpretasti quell’offerta?
«Come un gesto di affetto».
Solo?
«Se alludi al fatto che potesse essere innamorato, non lo so. Certo non c’era da parte mia nessuna corrispondenza in quel senso. Oltretutto, vivevo allora con un compagno un po’ più giovane di me. Penso che si sentisse solo e ripagasse il mio affetto per lui con altrettanto affetto. Del resto, la stessa cosa accadde con Elsa Morante. Entrambi volevano in cambio l’unicità dell’altro».
Erano, sia pure diversamente, nature assolute.
«Erano nature possessive. Negli ultimi anni le mie frequentazioni divennero più rare. Wilcock se ne risentì. Resta la sua estrosa grandezza, incastonata dalla sua morte».
Cosa ebbe di speciale?
«Nulla, per carità. Mi telefonò Laura Betti per dirmi che Rodolfo era morto. Lo raggiunsi a Lubriano, dove da anni si era trasferito. Vidi il cadavere supino sul letto. Chiesi a un vicino se erano state chiamate le pompe funebri. Dopo un po’ arrivarono degli uomini con la bara. Ma non c’era il carro. Fu trasportato al cimitero su di un camioncino. Sembrava il trasloco surreale verso un altro mondo. Fu così che Wilcock uscì dalla mia vita».
Accennavi alla Betti.
«Laura era dotata di due personalità opposte: tenera e accogliente, ma anche irosa e tirannica. Non aveva sponde. Un solo amore: Pasolini. Non l’ho mai vista piangere, gridare sì, per dolore».
Tu piangi?
«Raramente, piansi due giorni interi per la morte di mio padre».
Fu così importante?
«Lo fu senza che glielo abbia mai detto. Era ufficiale di marina. Avevo due anni, quando con la mamma lo seguimmo prima di stanza in Grecia e poi a La Spezia».
E tua madre?
«Di lei, che proveniva da un’antica famiglia borbonica, sono stato più complice che figlio. Aveva una bellissima voce, piena di malinconia. Mi ha trasmesso l’amore per la musica e il canto».
So che anche tu canti.
«Non l’ho mai fatto in modo professionale. Enzo Siciliano disse che della mia voce amava l’asprezza».
Siciliano fu il ponte di molte vicende letterarie romane.«Conosceva molti segreti, ma sapeva custodirli. Preferiva edificare anziché distruggere».
C’era qualcosa da distruggere?
«C’è sempre qualcosa non dico da distruggere ma da cui prendere a volte le distanze».
Difendeva il santo sepolcro.
«Aveva fede nella letteratura e in coloro che la incarnavano, come Moravia e Pasolini».
Moravia lo hai conosciuto bene?
«La prima volta che lo incontrai me lo presentò Dario Bellezza, nel 1971. La sua amicizia mi allontanò dalla Morante che dagli amici pretendeva l’assoluta appartenenza».
L’unicità, come dicevi.
«Certo, con Elsa furono anni tumultuosi. Diffidava di quasi tutti».
Qualche nome?
«Per esempio di Bellezza e di Amelia Rosselli. Mi diceva: guardati da quelle persone fanno affiorare la parte peggiore di noi».
Cosa voleva dire?
«Sinceramente non lo so. Divideva il mondo letterario tra chi le obbediva e chi le trasgrediva. Per questi ultimi non c’era spazio».
E tu trasgredisti?
«La verità è che fui io a interrompere il rapporto. Le annunciai che avevo appena finito di scrivere un libro. Era la storia di tre personaggi, dalla sessualità incerta, in una Roma allucinata. Mi chiese di leggerlo. Glielo portai. Un mattina Elsa mi chiamò, aveva letto una trentina di pagine. Disse che era un romanzo osceno e insopportabile. Dopo quella telefonata non volli più incontrarla. Ecco, la Morante aveva il “dono” di distruggere. Processare e distruggere».
E quel romanzo?
«Lo tenni per una decina di anni nel cassetto. Poi uscì per le insistenze di Bellezza».
Hai conosciuto anche Anna Maria Ortese?
«Fu una donna perennemente inquieta e scontenta. La conobbi a Roma, ai Parioli. Poi si trasferì a Rapallo a vivere con la sorella. Forse la scrittrice che più di ogni altra ha saputo vedere lontano».
Più della Morante?
«La Ortese fu più moderna, più libera nella sofferenza. Elsa era molto occupata a dividere il bene dal male. Le sue storie straordinarie appartengono al passato. Quelle della Ortese sono proiettate, in un certo senso, al futuro. La sua prosa era libera dagli schemi. Un po’ come è accaduto per la poesia di Sandro Penna».
È stato un lungo rapporto con Penna?
«Diciamo che solo ora, dopo l’uscita del Meridiano di Mondadori, me ne sono liberato. Lo conobbi a un bar di piazza Navona. Era attorniato da un gruppo di giovinastri trascinati lì da Dario Bellezza. Erano i primi anni Settanta. Penna l’ho frequentato bene l’ultimo anno di vita: il 1976. Morì infatti nel gennaio dell’anno successivo».
Dove lo incontravi?
«Soprattutto a casa sua, nel centro storico, al quarto piano di un vecchio edificio. La prima volta mi ricevette indossando una maglietta e dei mutandoni di lana. Aveva la faccia glabra, i capelli aderenti e lucidi di brillantina. Mi scortò lungo un corridoio fino a uno stanzone carico di mobili, di oggetti e libri ovunque».
Lo stesso disordine che trovasti da Wilcock?
«Entrambi si erano arresi al caos. Ma sulle pareti della casa di Penna notai quadri importanti di Mafai, Schifano, De Pisis. E poi Evola, Cagli, Guttuso, Afro, De Chirico. Litografie di Klee e Kandinskij. Il povero Penna aveva un considerevole patrimonio artistico! Protetto dall’immondezzaio della casa».
Si è parlato della sua omosessualità e del suo candore.
«Ebbe i suoi amori, anche tormentati. Ma alla fine scelse la poesia come bene assoluto. Puntare sulle sue stranezze, sulla miseria e la diversità è fuorviante».
Tu non hai mai fatto mistero di avere avuto dei compagni nella vita.
«Ho vissuto la mia omosessualità tranquillamente. Senza proclami né outing».
I tuoi come reagirono?
«Regalai a mio padre nel 1974 un romanzo dove alludevo alla mia omosessualità. Non disse nulla e pensai a quest’uomo nato povero e fattosi da solo che scelse di tacere. Non era un silenzio rabbioso, ma quieto, naturale, come se davvero non ci fosse niente da dire. Mi resta un mistero. Quando lesse praticamente tutti i miei libri, distrusse le sue lettere e i diari che aveva tenuto in giro per il mondo. Un gesto che si perde nella profondità dell’animo».
Forse solo i veri scrittori sono capaci di annullarsi.
«Mi resta questo vuoto. In parte compensato da una scoperta giovanile. Trovai chiusi in un armadio i suoi libri. È lì che iniziai in modo disordinato ad accostarmi alla grande letteratura».
Hai frequentato anche molte case di scrittori.
«Da quasi tutte uscivo con un senso di stanchezza, con l’assillo dei problemi che a volte mi trasmettevano. La sola che mi riempiva di gioia era quella di Aldo Palazzeschi. Frequentai la sua casa negli ultimi anni di vita. Era un vecchio gentile, che credeva ancora nell’amore. Un’altra casa che mi piaceva era quella di vacanze a Sabaudia di Moravia. Gli corrispondeva. Mentre trovavo orribile quella adiacente di Pasolini».
Moravia, dicevi, te lo presentò Bellezza.
«Fu un’amicizia lunga, protrattasi fino alla morte. A volte mi telefonava la mattina chiedendomi di accompagnarlo per delle compere o per andare al cinema al primo pomeriggio o la sera in pizzeria. Si annoiava frequentemente. Doveva sempre mettere alla prova la sua curiosità. Una volta lo videro su un cavalcavia della Prenestina osservare il lavoro delle prostitute. Non amava salotti, terrazze, cliché letterari. Amava discutere durante le cene da cui si ritirava presto».
Il fermo immagine per una società letteraria che non sarebbe stata più la stessa fu l’assassinio di Pasolini.
«Si chiuse un’epoca in cui un gruppo di persone ciascuna diversa dall’altra seppe creare un’identità riconoscibile e forse irripetibile».
Che cosa è la scrittura per te?
«È il bisogno di portare la mia parte musicale dentro le parole».
Una forma di felicità?
«La felicità è un momento di stordimento. Quando ne prendiamo coscienza è già trascorsa. No, la scrittura è energia che ti ravviva».
Ti turba il tempo che passa?
«Da buon meridionale ho avuto la morte sempre presente. Mi turba eventualmente il disordine che potrei lasciare. Mi turba avere assistito all’agonia dei miei cari, dei miei amici. Vorrei vivere decentemente questi anni finali».
Nel nome della poesia?
«Anche, perché no. La poesia è una pozzanghera nella quale si riflette il cielo. Non il contrario».
Come giudichi il tuo lavoro di poeta?
«Non spetta a me dirlo. In ogni caso sono piuttosto feroce con le mie cose. Penso ai miei amati greci e latini. Loro sì conoscevano le insidie della fine. A volte penso che se di me resteranno, nell’orecchio di un altro, una trentina di poesie sarà tanto».
E se non restassero neanche quelle?
«Pazienza, vorrà dire che non sono stato abbastanza spietato con me stesso».
L’autocritica equivale al rispetto?
«Penso di sì, se non rispettassi me stesso non potrei rispettare gli altri. È il modo migliore per non rifiutarmi alla vita e al giudizio. Non credo nelle chiese, mi piace entrarvi e accendere candele, non per i santi che sono di gesso, per i miei morti e i miei amici ormai scomparsi. Forse aspiro a una santità laica, un sogno di perfezione che non saprei realizzare. O forse a una compassione dettata da piccoli gesti che non chiedono nulla in cambio».