la Repubblica, 30 luglio 2017
Calcio, la via del modello americano per salvare spettacolo e affari
Neymar al Psg: una manovrina sui 580 milioni di euro così ripartiti: 222 al Barcellona, clausola di rescissione, circa 20 di tasse allo Stato francese, 300 lordi al giocatore per un ingaggio quinquennale a 30 milioni a stagione (al Barça erano 11: già troppi), più una quarantina a Neymar padre perché sì, perché è il suo procuratore e dovrà pur mangiare anche lui, qualcosa da Raiola avrà imparato. In apparenza stiamo parlando di calcio, ma questo non è calcio. Qualcuno la chiamerà follia, qualcun altro calcolerà il numero di ospedali che con questa cifra si potrebbero costruire, o dire che con questa cifra si poteva risanare l’Atac o far bere un buon brodo all’Alitalia.
Lasciamo stare, evitiamo le secche del moralismo, che peraltro sarebbero giustificate in stretta chiave pallonara. Maradona costò al Napoli 13 miliardi di lire (oggi, più o meno, 16 milioni di euro). Matthaeus all’Inter 8, Platini alla Juve un miliardo (sempre di lire) scarso. Cos’ha di speciale Neymar per costare 40 volte Maradona? Nulla, nada, rien. È un buon giocoliere, rissosetto alquanto, con intelligenza calcistica non eccelsa. L’emiro Al Khelaifi, mente e banca della manovrina, ha detto che anche per queste operazioni passa un’immagine politica del Qatar. Che sarebbe migliore, mi creda, se nei ritagli di tempo si occupasse anche delle condizioni di vita e di lavoro dei tanti operai venuti dal Nepal e dal Bangladesh a costruire gli stadi del Mondiale e che hanno il cattivo gusto di morire in quel paradiso capace di organizzare una corsa ciclistica senza spettatori.
Neymar al Psg è, semplicemente, un’esibizione di ricchezza e di potere. Come comprarsi un Van Gogh o un Picasso, ma con un’eco assai più vasta. Da un po’ il calcio è uscito dagli stadi, tanti dettagli ce lo dicono. Per esempio, chi aveva fama di bad boy faceva fatica a trovare un ingaggio, mentre oggi si fa la coda alla loro porta. Dov’è la logica? I costi seguono una logica di mercato (frase classica). Sì, ma è un mercato impazzito, in mano ai procuratori che faranno il loro mestiere (come i boia, del resto) ma intanto, complici club, calciatori, tifosi, informazione, hanno svuotato il calcio da quello che lo rendeva almeno parente di altri sport: la passione, per cominciare. Il cuore, l’anima. Con Neymar si acquista una griffe, un personaggio molto mediatico. Farà vendere milioni di magliette, ostenterà sui social network l’amata famiglia, la madre che ogni giorno prega Dio perché il figlio abbia una bella vita (fin qui c’è poco da lamentarsi), le donne, i tatuaggi, il figlio, insomma tutto quel che serve ad avere 60milioni di like su Facebook e 70 milioni di followers su Instagram. Ma non confondiamo il valore con il cartellino del prezzo. Quello è il costo. Federica Pellegrini, Valentino Rossi, Roger Federer, o più indietro Pietro Mennea, Sara Simeoni, Josefa Idem valgono molto più di Neymar.
Noi pensiamo che i soldi che girano nel calcio siano come quelli del Monopoli, per via Dante o Parco della Vittoria. No, sono veri. Anche quelli riciclati sono veri. Nel calcio da qualche anno gira uno strano uccello che si chiama fairplay economico: appena si posa su un ramo gli sparano, cioè lo aggirano. Non è molto protetto. Il calcio internazionale è diventato un Far West senza sceriffi, ogni po’ una piccola modifica che riguarda gli arbitraggi, e solo quelli. Pannicelli caldi a un malato che sta schiattando, che vive o sopravvive sui proventi tv e non è capace di prendere l’unica seria decisione, l’unico argine al caso-Neymar e a quelli che verranno. Salary cap, come negli sport professionistici Usa. Che non sono certo un paese marxista, ma stanno molto attenti alle disparità economiche. Lì, i dirigenti si preoccupano di varare squadre competitive rispettando integralmente i patti. A loro interessano la bellezza dello spettacolo, l’incertezza del risultato, le regole del gioco, e anche il botteghino, ma non solo quello. In un calcio che non è un gioco e dove le regole sono fatte per essere aggirate, sembra un discorso fantascientifico, ma qualcosa si può o si deve fare, prima che Ricchi e Poveri indichi non un gruppo musicale ma due campionati diversi in Europa, il primo dipendente da emiri, petrolieri, miliardari russi o cinesi, il secondo da squadre non cresciute a colpi di fantastiliardi. In memoria di Paolo Villaggio penserò al commento di Fantozzi. Senza scriverlo.