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 2017  luglio 31 Lunedì calendario

La diva del piano. Intervista a Vanessa Benelli Mosell

PIETRASANTA Si può volere la perfezione? Cercare di raggiungerla non in senso metaforico, ma concreto? Vanessa Benelli Mosell, grande speranza della scena pianistica, crede di sì. «Il mio riferimento è Arturo Benedetti Michelangeli, che equivale alla tentazione della perfezione».
In musica la perfezione non è un’utopia? «Forse. Eppure lui sapeva comunicare il suo approccio utopistico». Quando racconta i suoi trascorsi da enfant prodige, le sue scelte radicali, il suo modo maniacale di studiare, Vanessa esprime una determinazione che ha qualcosa di eroico. Seduta nel giardino di un albergo della Versilia, dove la sera prima ha tenuto un concerto, è una ragazza minuta e involontariamente sexy: nessuna posa, nessuna malizia.
Vista così, nella dimensione privata (sulle cover dei dischi è maliarda e aggressiva come richiede il marketing), sembra una fresca liceale. Capelli biondi, maglia di cotone, jeans, scarpe basse. Una teenager che fa discorsi sapienti. In lei la maturità interiore (che trasmette anche suonando) va di pari passo con l’aspetto quasi infantile, ed è questo paradosso a darle un fascino forte e strano. A 29 anni – però ne dimostra dieci di meno – sembra aver attraversato alcune vite quasi perfette. Eliminare il quasi dev’essere il suo ultimo traguardo.
Dove vive Vanessa?
«A Parigi, buon compromesso tra Italia e nord Europa. Ho provato a stabilirmi a Londra ma non era la mia città. Volevo qualcosa di più latino: io sono di Prato».
L’Italia non va bene?
«Non per il lavoro. Ho cominciato prestissimo a studiare all’estero».
Riscuote successi suonando nel mondo, ha debuttato alla Scala, incide per Decca dischi premiati ed è nota per coltivare la musica contemporanea.
«Veramente ho un repertorio che va da Scarlatti ai viventi. Ma in effetti amo i linguaggi sperimentali, complessi e misteriosi, che inducono a scavare».
È un’interprete devota di Stockhausen.
«Da adolescente sentii Pollini che eseguiva i Klavierstücke di Stockhausen, e quella musica indecifrabile mi sconvolse. Radio3 mi propose di registrare quattro Klavierstücke e io li studiai da sola… Avevo sedici anni. In Italia nessuno era in grado d’insegnarmi quei pezzi. Riuscii a dare la registrazione al compositore che m’invitò da lui a Kürten. Vi sarei tornata in periodi diversi fino alla sua morte. E l’anno scorso a Rimini ho fatto una maratona coi suoi nove Klavierstücke, ottenendo un successo sorprendente».
Di che poteva parlare con Stockhausen una sedicenne di Prato?
«Di musica. Non c’era amicizia. Come insegnante era esigente, durissimo. Sapeva cosa voleva. Era entusiasmante trovare con lui la chiave di ogni passaggio. Si lavorava per ore sui dettagli».
A che età si è resa conto del suo talento?
«A tre anni, all’asilo, dove una suora insegnava musica. Suonavo tutto a orecchio. Fui ammessa eccezionalmente all’Accademia di Imola (scuola pianistica di alto perfezionamento, ndr) quando ne avevo sette. Lì gli allievi più piccoli avevano dodici anni».
I suoi genitori sono musicisti?
«No. Padre chirurgo, mamma impegnata nell’azienda di famiglia. È di origini alsaziane: appartiene a lei il mio secondo cognome. Smise di lavorare per occuparsi della mia educazione. Doveva sempre accompagnarmi a Imola… Nel 2007 mi trasferii a Mosca per le classi di Mikhail Voskresensky, che mi aveva voluto come allieva al Conservatorio. E nel 2010 andai al Royal College of Music di Londra. Due esperienze completamente differenti».
Può spiegare perché?
«A Mosca la full immersion fu pazzesca. Ero l’unica straniera e gli altri studenti erano super-preparati e competitivi. Volevo essere all’altezza e davo tutto. La città mi pareva un incubo. Non avevo amici, nessuno parlava inglese, ero disperata. Ma è servito: per crescere non bisogna stare comodi. A Londra la preparazione era più ampia e varia, e si apprendeva a gestire la musica come lavoro. Se si vuol entrare nel professionismo non basta star seduti a studiare».
Lei cura molto l’immagine?
«Devo. Mi segue un’équipe di quattro agenti più i discografici. Sulle foto decidono loro. Prediligo stilisti classici: Chanel, Marc Jacobs, Chloé. Prima dei concerti studio a casa vestita come sarò sul palco: tacchi alti, vestito stretto, paillettes… È necessario abituarmi per acquisire naturalezza».
La sua ossessione?
«Essere organizzata. Quand’ero piccola mia madre stilava per me una tabella di marcia: dalle 14 alle 15 Mozart, dalle 15 alle 16 Chopin, dalle 16 alle 17 Bach… Continuo a fare così. Devo rispettare uno schema e studio spasmodicamente. Posso superare le nove ore al giorno».
I suoi coetanei musicisti sono ossessivi come lei?
«Il livello tecnico non smette di alzarsi. E la consapevolezza musicologica si è ampliata molto rispetto al passato. La sfida è elevatissima».