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 2017  luglio 29 Sabato calendario

Così «strapazzo» i grandi palazzi. Intervista a Marco Petrus

Una nuova serie di opere di Marco Petrus, pittore assai noto per le sue visioni urbane, è esposta a Napoli nella mostra «Matrici». Protagoniste sono le Vele di Scampia, edifici costruiti negli anni 60 sull’onda del Modernismo internazionale, divenuti poi, sfortunatamente, teatro della malavita partenopea.
Quale il motivo della scelta di questo tema?
«Da tempo cercavo un soggetto unico per sviluppare un progetto che “progredisse” rispetto al “metodo” da me affinato. L’occasione si è presentata pensando a Napoli, complice l’Unité d’Habitation di Le Corbusier cui avevo dedicato un grande dipinto esposto a chiusura della mia ultima mostra “Atlas” (Triennale di Milano, 2014). Caso vuole che il complesso di Marsiglia avesse ispirato anche il progettista delle Vele, l’architetto Franz Di Salvo. L’esposizione mediatica di Scampia, con la sua forza icastica, la monumentalità e le caratteristiche compositive delle architetture si sono rivelate “necessarie” per quest’operazione».
Opere che avranno richiesto tempi lunghi, sul campo…
«In tre anni di lavoro non sono mai stato a Scampia. Ho raccolto immagini da Google Earth. Da sempre guardo agli edifici come a modelli estrapolati dal contesto originario, spogliati dagli aspetti sociologici e urbanistici».
Quali, in particolare, i primi edifici dipinti?
«Prima di concentrarmi sui singoli edifici e sui loro dettagli, a fine anni 80 dipingevo “passeggiate urbane”, spesso notturne, da flâneur: percorsi che ogni volta svelavano luoghi mai notati prima».
Gli itinerari piu’ battuti?
«Alla Bovisa, con i suoi gasometri, che mi riportavano alla Milano di Sironi. L’interesse per i dettagli nacque allora. Cominciai a fotografare finestre e facciate. Più tardi le trasferii su carta e tela».
E i soggetti più amati?
«Ca’ Brutta, Palazzo della Triennale, Torre Rasini, Torre Velasca, Pirellone, le architetture milanesi di cui non posso fare a meno. Le ho strapazzate, rovesciate, tradite, fino a farle diventare una mia visione d’insieme: le ho utilizzate per costruire uno stile, per definire una poetica».
Come si relaziona il suo modo di vivere gli interni domestici con la ricerca sull’architettura?
«Sono cresciuto con la mia numerosa famiglia in case d’epoca, dove gli arredi si tramandavano e si adattavano cambiando funzione in base alle esigenze. Poi, con la nascita di mio figlio Lorenzo, scelsi con Donata di vivere in un palazzo anni 20 per la bellezza dei suoi pavimenti – marmettoni, graniglie, parquet – e delle piastrelle smussate di bagni e cucine. Infine, la svolta minimalista: un appartamento luminoso anni 60, per il quale abbiamo scelto pezzi di modernariato danese e design italiano. Un minimalismo che sta caratterizzando anche lo stile delle mie ultime tele».