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 2017  luglio 30 Domenica calendario

I romanzieri senza i peccati sono disoccupati spirituali

Nessuno mai l’ha dipinta meglio di Giotto, la ripugnante, maniacale invidia: sempre vigile, insaziabile, più pestifera della stessa peste. Non è un caso se nella Cappella degli Scrovegni, dove si fronteggiano i vizi e le virtù, il suo contrario è la carità: come a indicare i due poli di un campo magnetico, ovvero la possibilità più alta e il punto di massima abiezione nella natura umana. Scontro totale, senza possibilità di compromessi: dove c’è l’una, non ci può essere nemmeno un briciolo dell’altra.
Nell’immagine spaventosa di Giotto, quasi una profezia gotica delle mostruosità di Alien, la laida donnaccia dal corpo emaciato e informe emerge dal fuoco che la alimenta e la divora. Sempre proteso a carpire i fatti degli altri, l’orecchio che sporge dal profilo della megera è grottesco nella sua enormità: una mostruosa escrescenza di cartilagine capace di trasformare ogni notizia in un motivo di risentimento. Ma l’orrore non finisce qui. Dalla bocca esce una serpe, la serpe della maldicenza, che dopo vari contorcimenti punta dritto agli occhi, come per divorarli. Da parte sua Dante, nel Purgatorio, le palpebre degli invidiosi le cuce con il fil di ferro. Ma il massimo dell’espressività Giotto la raggiunge dove meno ce lo aspetteremmo, come sempre fa il genio. Sono le mani dell’invidia a scuotere e raccapricciare più di ogni altro simbolo del dipinto. Ogni volta che ci sorprendiamo a invidiare qualcuno (capita a tutti) è a quelle mani che dovremmo pensare, per piantarla immediatamente. Della sinistra si vedono solo le nocche, talmente impegnate a stringere l’apertura di un borsello che facilmente le percepiamo livide, anche se l’affresco è monocromo e non consente sfumature di colore. Certamente, l’invidia è avara, ma il suo senso del possesso è molto più infelice di quello dettato dall’avarizia. L’attaccamento al possesso è grottescamente intenso in entrambi i vizi, ma nell’invidia si accompagna alla certezza di essere stati defraudati, all’insana convinzione che quello che si stringe nelle mani è troppo poco rispetto a quello che sarebbe giusto avere. Un sentimento patologico e distorto della giustizia, in effetti, è la pietra di volta di tutto l’edificio dell’invidia, che ha sempre bisogno di fornire a se stessa una spiegazione razionale, ha sempre l’aria di riparare un torto. Tutto questo risulta chiaro se, dalla mano sinistra, spostiamo l’attenzione alla destra. Questa mano rapace, che desidera ghermire ciò che non le appartiene, è il vertice dell’abominio. Probabilmente, non saprebbe che cosa fare di ciò di cui desidera appropriarsi; ma nel suo desiderio del bene altrui, il vero movente non è goderlo, ma toglierlo a chi lo possiede.
Giotto non poteva certo immaginare l’odio sociale spruzzato dai social network, quelle tristissime e tragiche parodie del riscatto e dell’aspirazione all’uguaglianza che nel migliore (per così dire) dei casi si identificano con la demagogia, nel peggiore con il terrorismo. Ma il suo affresco è un blasone inquietante di tutto ciò che sta affliggendo la nostra esistenza. È la logica perversa dell’invidia a minare la vivibilità del mondo.
Non vorrei che il mio ragionamento fosse viziato dal fatto che invecchiando anche i vizi sembrano peggiori di una volta; ma almeno la vecchia invidia paesana aveva la sua rustica dignità artigianale. Era quello che era, senza ammantarsi continuamente di giustizia, onestà, mandiamoli a casa, ritorniamo grandi, è l’ora del riscatto. Produceva, essenzialmente, il buon vecchio malocchio: e dal malocchio ci si poteva difendere con un semplice, efficace scongiuro. Chi ha la mia età ed è vissuto da quelle parti forse ricorderà che nei paesi del Sud, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, cominciavano ad apparire, durante le vacanze estive, macchine relativamente costose, frutto della fatica di chi era andato a lavorare in Germania, in Svizzera, in Belgio. Gli emigranti che tornavano qualche settimana a casa quelle Bmw e quelle Mercedes se le erano guadagnate senza rubare nulla a nessuno. Ma si sa come vanno le cose nei paesi. E dunque, con dei pezzi di nastro adesivo, i proprietari confezionavano una scritta da incollare al parafango, o sulla fiancata: INVIDIA CREPA.
Una volta, mi capitò di orecchiare il discorso di un cretino che deprecava quell’usanza, la considerava un affronto alla solidarietà di classe. Me ne ricordo ancora oggi perché purtroppo non c’è nulla di più memorabile dell’idiozia compiaciuta di se stessa. I possessori di quelle macchine, in realtà, erano brave persone che non volevano scontare come una colpa il loro successo, quale che fosse. Mi è tornata in mente la vecchia formula scaramantica incollata sui parafanghi quando ne ho trovato una analoga, con la quale i camionisti indiani completano le incredibili decorazioni dei loro veicoli, nel bellissimo Atlante delle emozioni umane di Tiffany Watt Smith (tradotto anche in italiano dalla Utet). Il senso è quello di INVIDIA CREPA, ma il suo linguaggio fiorito merita di essere riportato: buri nazar wale tera muh kala, ovvero «ti possa diventare nera la faccia, creatura dall’occhio cattivo».
Difficilmente i nostri emigrati o i camionisti himalayani si dilettano di critica letteraria, ma problemi analoghi ai loro, a quei tempi e ancora oggi, hanno sempre affrontato gli scrittori di libri incappati nella colpa capitale delle vendite. Anche il mondo culturale, tutto sommato, è una specie di paese. Ebbene, se l’invidia sociale sbandiera sempre lo stendardo della giustizia, anche l’invidia letteraria si cerca i suoi quarti di nobiltà. E dunque, un libro che vende è necessariamente un’usurpazione, non è abbastanza «sperimentale», strizza l’occhio ai gusti del pubblico, e quando questo libro è stato scritto da qualcuno che prima non vendeva, ebbene è un tradimento, uno scadimento. Intendiamoci: da sempre esistono libri di cui è difficile se non impossibile spiegarsi il successo. Ma ciò che questi censori non considerano mai, è il fatto che le stesse caratteristiche deprecate in un bestseller (come la furbizia, la compiacenza, eccetera) sono presenti nello stesso grado in innumerevoli libri che non vendono affatto.
Il successo e l’insuccesso sono circostanze troppo estrinseche all’opera, e soprattutto troppo casuali, perché se ne possa cavare un qualunque criterio di giudizio. Eppure, in certi schifiltosi ambienti, ad Elsa Morante non fu perdonata La Storia così come a Umberto Eco non fu perdonato Il nome della rosa, e ad Anna Maria Ortese Il cardillo addolorato. E ci scommetterei qualunque cifra: se non avessero avuto successo, quelle opere non sarebbero mai state valutate con tutto il draconiano rigore che si sono attirate.
Ma non ho voglia di nascondermi dietro esempi comodamente lontani nel tempo: io non riesco a prendere sul serio nemmeno le persone che citano, mettiamo, Fabio Volo come epitome ed esempio supremo della cattiva scrittura. Non me ne sono fatto un’opinione personale, ma di sicuro quelle persone ne parlano perché vende molte copie dei suoi libri, altrimenti non se ne sarebbero mai nemmeno accorte. E questa circostanza è un fatto che riguarda il fisco, non l’estetica. Ci si potrà stupire di tanta mancanza di buon senso, di tanta importanza accordata all’aleatorio. Ma basta ripensare all’affresco di Giotto: l’invidia è una persona tanto orripilante vista dal di fuori, quanto più si considera bella, nel suo pieno diritto, giustificata dai più nobili ideali. Nessuno la ammette in quanto tale, indossa sempre le migliori maschere, perché la prima persona che l’invidioso ha bisogno di ingannare non è altri che se stesso.
Ritorno a sfogliare l’ Atlante delle emozioni umane, fonte inesauribile di ispirazione, dove trovo citata una frase di Nancy Friday: l’invidia secondo questa saggista sarebbe «l’unica emozione in tutta la vita umana di cui non si può dire nulla di buono».
Suona bene, ma non è vero.
In primo luogo, ci sono molte buone ragioni per credere che l’invidia non sia un vizio acquisito e facoltativo, come il fumo o l’indiscrezione, ma una componente innata dell’essere, come le categorie di Kant. È la celebre tesi della grande psicoanalista austro-britannica Melanie Klein, che nel 1957 pubblicò un saggio intitolato Invidia e gratitudine, che è l’ultimo approdo delle sue rivelatrici ricerche sulla formazione dell’identità nei primi mesi di vita. Il nostro primo dolore, afferma in sostanza la Klein, ha origine nel fatto che il seno materno non sia perpetuamente disponibile, e dunque fin dai primi mesi di vita noi oscilliamo tra i poli dell’invidia per ciò che ci viene sottratto (ingiustamente, secondo noi) e la gratitudine per ciò che ci viene elargito. Già nell’età del pannolino noi siamo dei nevrotici con qualche rischio di psicosi, insomma. L’ombra del lettino freudiano si allunga anche sull’immagine più idillica che esista, quella della mamma che allatta il suo bimbo. Ma il pensiero psicoanalitico non è l’unico, come si sa, a nutrirsi degli aspetti patologici della nostra vita.
C’è un’altra categoria di persone che, se per magia sparisse anche la minima traccia di invidia dal mondo, non potrebbe che ricavarne un serio danno professionale: parlo dei romanzieri, dei registi, e in generale dei narratori. L’arte narrativa, in questo senso, è il calzino rovesciato dell’esistenza: funziona proprio dove questa fa problemi. Togliete ai romanzieri i peccati, dai più triviali ai più bizantini, e ne farete dei disoccupati spirituali. Perché ogni peccato corrisponde a una mancanza, e ogni mancanza è una storia.
Quanto all’invidia in particolare, la sua vicenda letteraria è senza dubbio universale, ma la maniera in cui l’hanno trattata i grandi russi è rimasta insuperabile. Anche in questo campo, Puškin arrivò prima di tutti, nel 1830, quando compose Mozart e Salieri, tragedia in miniatura che ispirò prima l’ Amadeus teatrale di Peter Schaffer (1979), poi, nel 1984, il film stupendo di Miloš Forman, nel quale Murray Abraham, nei panni dell’infelice Salieri, creò una maschera vivente dell’invidia davvero degna di quella di Giotto. «Profondamente, tormentosamente invidio», confessa a se stesso il personaggio di Puškin prima di risolversi ad avvelenare Mozart, in nome di quell’idea deforme di «giustizia» che svolge, come dicevamo, un ruolo capitale nell’economia dell’invidia.
È questo il lascito che, attraverso Gogol’, arriva a Dostoevskij, l’Omero dell’invidia, che il 21 marzo 1864 pubblica in rivista la prima parte delle Memorie del sottosuolo, atto di nascita della letteratura moderna come ancora la intendiamo noi, tanto l’invenzione risulta a tutt’oggi radicale e ineguagliabile. Le Memorie sono un cosmo, e l’invidia il suo principio strutturante, la sua gravitazione universale. Una visione così profonda e rivelatrice non poteva ormai che radicarsi nella più lucida, spassionata, tragicomica anatomia della meschinità umana. E la confessione del «più invidioso di tutti i vermi del mondo», che come uno Iago di città non ha più nemmeno bisogno di calunniare la sua Desdemona per trascinarla nella rovina, è lo specchio in cui ogni umanesimo, ogni ottimismo, ogni progressismo, se pretende d’essere qualcosa d’altro che vuota retorica, deve riconoscere i suoi lineamenti deformi e terrorizzati.