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 2017  luglio 30 Domenica calendario

I gemelli dell’autoritratto

Compiute la volta e le pareti, nel Collegio del Cambio a Perugia, il Perugino era sceso dalle impalcature e aveva ritratto se stesso con un vero inganno ottico, simulando, ad affresco, il proprio autoritratto come un quadro incorniciato e appeso a un chiodo. Adsum qui feci. Sono qui io, io che ho fatto tutto questo che ora vedete. Una targa unita al dipinto tesse per l’osservatore, in vigilato latino, le lodi del maestro: senza di lui l’arte della pittura si sarebbe per sempre perduta. 
Si può sostare a lungo a scrutare il finto quadro in cornice, poiché il ritratto è assolutamente veridico. Calmo, dignitoso, il Perugino ha gli occhi penetranti, mentre il sopracciglio alzato indica severità e la bocca chiusa volontà. 
È stata dunque un’ idea felice, quella di Francesco Federico Mancini, di allestire, proprio nel santuario della pittura del Rinascimento umbro, una mostra che scavalca i secoli e i confini nazionali e invita a riflettere sul ruolo dell’autoritratto nella Roma dell’età barocca, indagando il reciproco influsso nell’ambito della ritrattistica, o meglio dell’autoritratto, tra Gian Lorenzo Bernini (qui nel ruolo di pittore) e Diego Velázquez (una via, quella del confronto face-to-face, che lo stesso curatore aveva già tentato con successo con Perugino e Raffaello e, a loro volta, con i due maestri e il Sassoferrato). 
L’autoritratto in età barocca oscilla tra introspezione e ostentata sicurezza, ma è soprattutto opera autonoma, sganciata dalla committenza. È ricerca pittorica, talvolta vanità, autopresentazione e dunque invenzione di un personaggio. Ma per Bernini, dipingersi era in fondo qualcosa di più: era come iniziarsi alla pittura. In un suo autoritratto giovanile, il piccolo formato corrisponde verosimilmente alle dimensioni dello specchio, verso il quale il pittore rivolge uno sguardo prolungato e attentissimo. Più ancora degli occhi, quasi febbricitanti, colpisce la bocca appena dischiusa, messa in evidenza da pochi brevi tocchi di luce. È la bocca di un uomo intento al lavoro. Era l’epoca dell’invenzione sublime della statua di Davide. Bernini aveva rotto con la staticità della statua. Il suo Davide invadeva lo spazio intorno. Sembra che in quei giorni felici fosse stato lo stesso pontefice Urbano VIII a indirizzare lo scultore verso la pittura. Così avvenne, ma più in una forma privata che non nell’esecuzione di pale d’altare, che Bernini disegnò, ma che lasciò eseguire a Carlo Pellegrini, pittore allora molto attivo e di sua fiducia. 
In seguito, la pittura, insieme ai bozzetti di creta e ai disegni, sarebbe stata ben presente nell’accademia fondata da Francesco Barberini nel palazzo della Cancelleria, che Bernini diresse dal 1630 al 1642. Uno dei temi di studio per gli allievi fu la cosa più privata che il maestro potesse offrire: il proprio autoritratto. Dal timido esperimento iniziale Bernini era ormai lontano. Aveva esercitato su di lui grande ammirazione un ritratto di gentiluomo, o forse di ecclesiastico, quello di Velázquez, oggi nella Pinacoteca Capitolina. Era proprio questo l’autoritratto che avrebbe guidato Bernini quando avrebbe dipinto il proprio che, nel corso del tempo, sarebbe entrato nella collezione di Leopoldo di Lorena agli Uffizi. In seguito Bernini dipinse, sempre pensando a Velázquez, la sola testa, più ardente e sicura. 
Basato su di un impianto tizianesco, il ritratto del maestro spagnolo, nelle estremità vaporose della zazzera, nei contorni sfumati, in una lievissima inclinazione del capo e nell’asimmetria della composizione, era vivo e presente come in un’istantanea. Aveva inoltre l’autorità d’un’adesione alla moda aristocratica, dai baffi arricciati al taglio dei capelli, fino al colletto ampio, nella realtà probabilmente bianco, ma che Velázquez dipinse grigio per accordarlo alle variazioni argentine della sua tavolozza. Fu questo presunto autoritratto che Carlo Pellegrini ed altri avrebbero copiato. 
Una motivazione ulteriore della mostra al Nobile Collegio del Cambio (nove le opere esposte) è infatti che il tema degli autoritratti di Velázquez era stato mirabilmente esplorato dal critico Valentino Martinelli (1923-1999), che lasciò alla Galleria Nazionale dell’Umbria tre repliche del dipinto capitolino, il cosiddetto «Trittico Martinelli», anch’esse in mostra. 
Infine, a concludere idealmente il percorso, ecco proprio lui, Diego da Silva Velázquez, il genio che aveva sofferto tutta la vita per avere i riconoscimenti nobiliari che si attendeva. Risale a poco prima del secondo soggiorno a Roma, del 16491650, il fiero autoritratto di Velázquez acquistato da Cosimo III dei Medici per la collezione di autoritratti degli Uffizi. È un autoritratto dirompente. La folta zazzera nera nasconde in parte il viso, entrambi gli occhi sono nell’ombra e lo sguardo rivolto allo spettatore, uno sguardo di sfida, è assai più grave e triste di quanto prometterebbe la posa imperiosa. Il volto non è frontale come nel presunto autoritratto capitolino, ma il personaggio sembra essersi fermato nel suo movimento marziale, non certo per essere guardato, ma per guardare, lui, noi. 
Con la pittura, Bernini, scultore, architetto, scenografo, uomo di teatro e di feste solenni, scioglieva nella sua stessa persona il problema rinascimentale della priorità delle arti. Ritraendo se stesso, Bernini spingeva il paragone fra le arti all’estremo, ma non mancava, proprio nel corso di un’esperienza polimorfa, di riconoscere e saggiare i limiti. Per esempio – si sarà chiesto infinite volte – come ottenere, nelle opere di tre dimensioni, quel brillio sulle palpebre e nell’iride, che tanta importanza aveva nei suoi autoritratti dipinti? Guardando gli occhi nei busti scolpiti da Bernini, seguiamo le risposte da lui trovate in un continuo interrogarsi. Nelle sue sculture egli non adotta mai, per gli occhi, che sono il dettaglio liquido e luminoso del volto, uno stesso lessico. Mai la stessa soluzione. Ogni volta, quando non rinuncia a porsi il problema e si rifà all’antico, o quando la collocazione fissa dei busti gli ha consentito di esaminare gli effetti della luce sui tratti di marmo più levigati, sembra chiedersi come ottenere quell’immediatezza che tanto stupiva nella pittura di Velázquez, ma che destava meraviglia nei suoi stessi autoritratti, come un altro della Galleria Borghese, nel quale una luce riflessa dall’iride sbatte anche – un puntino – sulla palpebra.