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 2017  luglio 30 Domenica calendario

Mario Bava. L’horror che spaventò Tarantino

«Nel diciassettesimo secolo si scatenò, spietata e violenta, la lotta contro quegli esseri mostruosi e assetati di sangue che le cronache di un tempo chiamavano vampiri», racconta la voce fuoricampo, profonda come solo quelle dei film in bianco e nero. Ma qua di bianco non ce n’è, quasi tutto è nero nel buio del bosco, alberi secchi si attorcigliano come vene nodose sotto la pelle della notte, pulsando alla luce delle fiamme che salgono da un rogo.
Lì legata c’è una donna, figure incappucciate le mettono sul viso una maschera mostruosa. Sbarra gli occhi e noi con lei, perché in una soggettiva spietata il boia avvicina la maschera alla macchina da presa, così vediamo arrivarci addosso i chiodi micidiali che danzano là dentro come serpenti.
E intorno nebbia, tanta nebbia densa e avvolgente, a coprire l’ennesimo orrore della crudeltà umana, ma soprattutto a nascondere i cavi stesi e le pareti strette dello scalcinato studio romano che stanotte diventa una foresta moldava, così come il castello transilvano che dominerà il film sarà quello di Arsoli nella campagna laziale.
Ma le luci, i movimenti, tutto è così stupendo da rendere la scena più vera del vero, il boia alza una mazza gigantesca e tu smetti di respirare, mentre una martellata che senti in fondo alla carne pianta nel volto della donna la terribile maschera del demonio.
Così inizia questo capolavoro, con l’urlo della vampira che riempie lo schermo insieme ai titoli di testa di una pellicola che cambierà la storia del cinema di paura, aprendo il filone ricco e glorioso del gotico all’italiana. Ma se nella trama nordica e nei paesaggi brumosi è così lontano dal nostro Paese, La maschera del demonio nasce per un motivo che più italiano non si può: per fare un favore a qualcuno.
Perché da noi funziona così: sei pieno di talenti e competenze, ma quando finalmente ti lasciano fare quel che sai fare, ti viene concesso come un grande favore. Come quando stai sulle strisce pedonali e aspetti che un raro automobilista si fermi, lasciandoti attraversare la strada con un gesto magnanimo della mano e l’aria da gran signore.
E così, nell’estate del 1960, solo un favore permette di girare questo film meraviglioso. E di far esordire, a quarantasei anni, uno dei registi più geniali del pianeta, l’immenso Mario Bava.
Nato il 31 luglio 1914, ha passato la vita sui set. Suo padre Eugenio è stato direttore della fotografia per i grandi film del muto, ma anche abile realizzatore dei primi effetti speciali, sfruttando le competenze della sua occupazione principale di scultore di santi, che rendeva realistici usando capelli, unghie e denti veri.
Mario eredita queste capacità fino a diventare un maestro assoluto. Gli basta qualche modellino, qualche pupazzo, ritagli di foto e disegni montati insieme per costruire sullo schermo una realtà nuova, spettacolare e gigantesca.
Appena ventenne, lavora alla fantascienza più sfrenata di tutte: i cinegiornali di propaganda, che mostrano al popolo la gloriosa cavalcata italica nel conflitto mondiale. Manipolando i filmati, Bava rende più gremite le piazze e più maestose le gesta dell’esercito, fino a mostrare un glorioso quanto inesistente attacco italiano all’isola di Malta. Poi la guerra finisce, tornano i film americani, e lui gira le versioni nostrane dei titoli di testa. Un buon lavoro, tranquillo e ben pagato, ma presto le sue troppe abilità lo trascinano di forza sui mille set del nostro cinema, che tranquilli non sono mai. Anzi, traballano in costante emergenza e hanno bisogno di lui, di quest’uomo di cinema totale, operatore impeccabile, maestro degli effetti, direttore della fotografia tra i migliori della sua epoca.
Lavora pure con Rossellini, De Robertis, Comencini, Steno e Monicelli, e quest’ultimo lo ricorderà con gratitudine per Guardie e ladri, dove Bava risolve la celeberrima scena con Fabrizi che insegue Totò lungo l’argine del Po. E lungo l’argine dell’impossibile, perché i due attori sono nemici giurati della corsa e di ogni sforzo fisico, quindi serve un direttore della fotografia svelto ad approfittare di ogni momento buono. «Bava realizzò quella sequenza in modo impeccabile e con grande classe, tant’è vero che è diventata la scena simbolo del film... più per merito suo che per me o per gli attori».
Mario è così, ama risolvere i problemi degli altri, e il suo intervento permette di chiudere tanti film deragliati, con spese minime e nei tempi previsti. Il pubblico non ne ha idea, perché i titoli non lo dicono mai, però i produttori lo sanno bene. Sanno che Le Fatiche di Ercole e altri titoli mitologici sono così sfarzosi all’occhio solo grazie alle sue miniature, che trasforma in palazzi reali, maestose città antiche e navi che riempiono lo schermo. Sanno che ne I vampiri, primo horror italiano, i suoi sfondi disegnati e montati insieme hanno creato l’ambientazione parigina senza fare un passo fuori da Roma, in modo così impeccabile che i distributori francesi non riusciranno a crederci. Sanno pure che il film è firmato da Riccardo Freda, ma l’ha girato quasi tutto lui, così come Caltiki il mostro immortale, una sorta di blob all’italiana dove il mostro informe e gigantesco è assai più realistico dell’originale americano, eppure Bava lo realizza inquadrando con sapienza qualche chilo di trippa: durante le riprese, sul set non si respira, ma è un disagio sopportabile se intanto porti a casa un film di fantascienza con un conto di poche lire dal macellaio.
E così in mille altre situazioni sgangherate, senza mai lamentarsi se il merito se lo prendono tutti tranne lui. Ma quando nel 1959 Jacquest Tourneur torna in Francia lasciando a metà La battaglia di Maratona, e lui oltre alla fotografia e agli effetti speciali si mette a girare le splendide scene di battaglia chiudendo magistralmente il film, la Galatea decide che dopo tante regie fantasma è l’ora di farlo esordire davvero, questo Mario Bava.
E allora ecco il famoso «favore» che ci riporta qua, in questa notte buia del diciassettesimo secolo, alla Maschera del demonio che si pianta in faccia alla strega, e ai titoli di testa che trasformano ufficialmente Bava in un regista.
E Mario si scatena.
Tutto quel che sa fare e immaginare, tutti i sogni favolosi che ha nella testa e le abilità che gli permettono di tramutarli in realtà, li riversa dentro il suo primo film. Che gira in un mese, curando la fotografia, i prodigiosi effetti speciali e pure la storia, vagamente ispirata al Vij di Gogol. Ma più ancora della trama, il film respira di immagini meravigliose, di scene che sono quadri vivi e selvaggi e ballano davanti a te fino a ipnotizzarti.
«Guardami negli occhi, avvicinati», dice la vampira-strega, che dopo due secoli torna per vendicarsi dei discendenti di chi la condannò. Tra questi c’è Katia, innocente ma identica a lei, un doppio ruolo perfetto per questa ragazza angelica e insieme sinistra che dall’Inghilterra si ritrova nel delirio di un set italiano, e nella scena del rogo si accorge che il fuoco le sta davvero bruciando la veste. La troupe si agita, ma Bava urla «Continuate, continuate a girare!», mentre lei legata alla croce alza gli occhi al cielo, sicura che adesso le sarà facile obbedire al copione e gridare con tutto il fiato.
Ma il rischio sarà ripagato, perché grazie a questo film Barbara Steele diventerà la regina dell’orrore e l’icona ammaliante dell’horror italiano, per poi lavorare con Roger Corman, Fellini e Cronenberg. I suoi occhi enormi e incantatori arrivano in tutto il mondo insieme a La maschera del demonio, che in America ha un successo clamoroso e sconvolge gli appassionati, abituati agli horror americani dove non si era mai visto niente di così oscuro e intenso. Tra loro, ragazzini eccentrici che cresceranno con questo fremito sempre vivo nel cuore: Martin Scorsese, John Landis, Joe Dante e Francis Ford Coppola. Quentin Tarantino dichiara: «Bava era il mio eroe», e Tim Burton gli dedicherà Il mistero di Sleepy Hollow.
Sono nomi che escono sempre quando si vuole spiegare il genio di Bava, altisonanti e insieme inutili, perché per capire la sua grandezza basta un paio di occhi che funzionano, e una mente libera di lasciarsi catturare dalle sue luci surreali, dalle immagini oniriche, da quella vibrazione calda e spiazzante che anima ogni fotogramma dei suoi film.
In America lo esalta «Variety», in Francia «Cahiers du Cinéma», e anni dopo anche Emmanuel Carrère, in veste di critico, lo definirà «il più grande regista vivente nel dominio del fantastico». In Italia però quella mente libera e pronta a stupirsi è un’entità più leggendaria di qualsiasi spettro e vampiro, e infatti su «La Notte» il Morandini scrive: «Ci permettiamo di dire che sono questi i film... che non dovrebbero mai entrare in circolazione».
Ma di tutte queste reazioni, che siano apologie o stroncature, Bava semplicemente sorride. Non lo interessa il prestigio, lo imbarazzano le celebrazioni. La lezione più grande – sull’arte e sulla vita – l’ha avuta da ragazzino. Amava dipingere, e un giorno per la soddisfazione di un quadro venuto proprio bene l’aveva firmato e mostrato al padre, che come premio gli molla uno schiaffo: «Chi sei tu? Sei Raffaello? Perché firmi un quadro? Sei Mario Bava, non sei nessuno!».
E come la maschera del demonio addosso alla vampira, questo schiaffo si pianta per sempre in faccia a Mario, alimentando la sua spietata autoironia e la ferocia con cui parla delle proprie creazioni. Quando gli chiedono perché i suoi film sono più amati in America che a casa nostra, lui risponde «perché loro sono più fessi di noi». E quando De Laurentiis lo chiamerà a Hollywood per gli effetti speciali di King Kong, Mario preferirà restare dietro a piccoli progetti italiani, squattrinati e però tutti suoi, suggerendo il nome di Rambaldi. Che così vincerà l’Oscar, mentre Bava non avrebbe saputo che farsene: soddisfazione più grande della notte degli Oscar è per lui la notte in cui costruisce un manichino così realistico che la moglie, andando in bagno, lo vede e sviene dalla paura.
Mario la rianima e sorride, come sorride quando lo esaltano, quando lo stroncano, quando il cinema sfrutterà le idee dei suoi film a basso costo per girare successi planetari come Venerdì 13 e Alien. Sempre per conto suo, sempre lontano dalle luci che sapeva dosare come nessun altro, usandole per dipingere i suoi capolavori che sono miracoli in scorrimento sulla tela dello schermo.
Perché quando nella vita hai la fortuna gigantesca di essere pagato – anche se poco, anche se non sempre – per fare quello che ami, e quel che ami è una meraviglia che emoziona te e gli altri, cos’altro puoi volere? Che senso hanno i confronti e le invidie, cosa ci fai coi premi e le celebrazioni, a cosa ti serve leggere il tuo nome scritto enorme in caratteri d’oro? Lo sai benissimo da solo chi sei: sei un uomo che dipinge i suoi sogni, così stupendi e unici che per riconoscerli non serve alcuna firma. Sei un uomo fortunato, un uomo che sorride, uno a cui riescono mille magie e pure la più prodigiosa di tutte: essere felice.