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 2017  luglio 30 Domenica calendario

Facciamo l’aerosol alla Terra

Fino al 1991, per molti abitanti delle Filippine, il Pinatubo era un monte qualsiasi: oscurato dai picchi circostanti, smussato dall’erosione, camuffato da una foresta che sfamava diversi insediamenti. Quando nell’aprile di quell’anno il vulcano si risvegliò dopo cinque secoli di inattività, tuttavia, i sismologi fecero in tempo a prevedere un’eruzione di proporzioni epocali e a evacuare buona parte delle decine di migliaia di persone che abitavano sulle pareti della montagna. Quello che non si aspettavano, invece, era che le particelle di diossido di zolfo espulse sarebbero rimaste nella stratosfera, creando una sorta di ombrello che avrebbe filtrato le radiazioni solari per quasi due anni e ridotto la temperatura globale di circa mezzo grado.
Il 9 luglio il «New York Magazine» ha pubblicato un articolo intitolato The Unhabitable Earth, che illustra come l’umanità si stia dirigendo a ritmo sostenuto verso un catastrofico orizzonte fatto di oceani avvelenati, aria irrespirabile, carestie globali e guerre permanenti. L’articolo di David Wallace-Wells ha ottenuto grande risonanza, ma anche scatenato accese polemiche, non tanto tra i negazionisti quanto tra gli stessi climatologi: alcuni hanno accusato l’autore di aver strumentalmente esagerato le prospettive (già di per sé cupe) del cambiamento climatico; altri hanno sottolineato come una lettura così marcatamente catastrofista potrebbe rivelarsi controproducente, poiché induce le persone a convincersi che non ci sia nulla da fare e quindi a disinteressarsi del problema.
Chi oggi, dopo aver sfogliato quell’articolo, venisse a conoscenza delle ricadute climatiche del Pinatubo potrebbe chiedersi: se è bastata un’eruzione vulcanica ad abbassare la temperatura globale, vuoi che non si possa riprodurre un fenomeno simile per contenere il danno? Una risposta, per quanto controversa e parziale, esiste: si chiama geoingegneria.
Parliamo di una disciplina che studia come l’uomo potrebbe modificare intenzionalmente gli equilibri del sistema Terra per volgerli a proprio favore. Siccome l’obiettivo primario è contrastare il cambiamento climatico, attualmente questa branca si sta concentrando su due fronti:
1) ridurre la quantità di calore solare assorbito dal pianeta;
2) eliminare dall’atmosfera l’anidride carbonica in eccesso responsabile dell’effetto serra.
Se il vulcano Pinatubo produsse un abbassamento della temperatura globale fu perché i 20 milioni di tonnellate di anidride solforosa dispersi durante l’eruzione aumentarono la riflettività dell’atmosfera terrestre, schermando per mesi parte delle radiazioni solari in arrivo sulla crosta terrestre. Per ottenere un simile effetto, la geoingegneria solare sta studiando diversi approcci: dallo schiarimento artificiale delle nuvole, all’immissione di aerosol di zolfo nella stratosfera, alla disposizione di strutture riflettenti nello spazio. Ancora più ampio è il ventaglio di tecnologie proposte per la riduzione di anidride carbonica: alcuni propongono di intrappolarla in forma solida sfruttando la pirolisi delle biomasse ( biocharring ) o la dissoluzione di minerali ( enhanced weathering ), altri suggeriscono di «fertilizzare» gli oceani, introducendo nutrienti per promuovere la crescita del fitoplancton, che svolge un ruolo cruciale nella riduzione dell’anidride carbonica. L’approccio più ambizioso, invece, è ancora in fase embrionale e consiste nella cattura della CO2 direttamente dall’aria: l’idea è quella di installare dei macchinari che funzionino come «alberi artificiali» per sequestrare e immagazzinare grandi quantità di anidride carbonica. Secondo diverse stime, alcune di queste tecnologie potrebbero a breve essere implementate a un costo ragionevole. E allora: perché non se ne sente quasi mai parlare? Innanzitutto, per una questione politica.
Storicamente, tra i più strenui promotori di queste ricerche figurano persone, come Richard Branson, che potrebbero avere un interesse personale ad aggirare il taglio delle emissioni. Il risultato è che nella comunità scientifica molti considerano la geoingegneria come un approccio reazionario, per certi versi negazionista. Il timore – fondato, per altro – è che se ci si convince di avere un jolly tecnologico da calare sul tavolo a fine partita, saremo ancora meno inclini ad accogliere un taglio delle emissioni che, a prescindere dalle promesse geoingegneristiche, rimane una priorità inaggirabile. Ma esistono anche problemi pratici. Non ci vuole una laurea in scienze ambientali, del resto, per intuire che affrontare il cambiamento climatico con un ulteriore e deliberato cambiamento climatico non sia la soluzione ideale. Certo, negli ultimi trent’anni la climatologia ha fatto notevoli passi in avanti, ma le variabili in gioco sono così tante, e così interconnesse, che non c’è modo di calcolare con esattezza in che modo un’immissione di aerosol di zolfo nella stratosfera inciderebbe sul buco nell’ozono, sulla distribuzione delle precipitazioni o sulla biodiversità.
Ci sono vari nodi ancora da sciogliere: nel momento in cui avremo a disposizione strumenti per modificare deliberatamente il clima, chi deciderà come e se utilizzarli? Come potremo assicuraci che una simile tecnologia non venga utilizzata come arma? Ma soprattutto: quale governance mondiale avrà il compito di sorvegliare una stanza dei bottoni così delicata?
Nel suo libro Il pianeta nuovo, Oliver Morton propone che le strategie di riduzione delle emissioni e quelle geoingegneristiche vengano coordinate in tandem. L’ingegneria climatica, in sostanza, verrebbe utilizzata come incentivo per il taglio delle emissioni: alle nazioni che non rispettano determinati standard, ad esempio, verrebbe impedito (non è chiaro come) l’accesso alle tecnologie di geoingegneria locale. Una cosa che Morton non manca di sottolineare è che la geoingegneria non potrà mai essere risolutiva: Non saremo mai in grado di sottrarre dall’atmosfera una quantità di anidride carbonica pari a quella che immettiamo ogni giorno; e se anche la geoingegneria solare ci consentisse di mantenere l’aumento della temperatura al di sotto dei famigerati 2 gradi celsius (impresa che al momento, con gli Usa che si sfilano dall’accordo di Parigi, appare più che mai ardua), in assenza di una riduzione significativa delle emissioni, il problema verrebbe solamente rimandato.
Nonostante tutte le riserve, però, vale la pena mantenere la geoingnegneria sul tavolo delle discussioni, e non solo perché, se la situazione non cambia alla svelta, il taglio di emissioni probabilmente non sarà sufficiente a scongiurare il disastro; ma per una ragione di natura psicologica: la gente potrebbe appassionarsi. Studi recenti suggeriscono infatti che un approccio catastrofista, come quello scelto dal «New York Magazine», potrebbe rivelarsi deleterio, soprattutto tra le generazioni più giovani. La gente tende a sentirsi coinvolta in un problema solo quando percepisce di avere un qualche margine d’azione. Da questo punto di vista, la geoingegneria potrebbe fornire alle persone quel minimo di «speranza» necessario a far sì che prendano a cuore il problema, piuttosto che rassegnarsi ad aspettare che il mondo si riduca alla crosta abbrustolita descritta da Wallace-Wells nel suo articolo.