La Stampa, 29 luglio 2017
Il sentiero sull’Himalaya dove si riaccende lo scontro tra India e Cina. Pechino vuole asfaltare una lingua di terra ma New Delhi schiera l’esercito al confine
Nel villaggio di Kupup, 200 baracche con tetti di lamiera a 4000 mila metri d’altitudine, da metà giugno c’è più tensione del solito. È l’ultimo insediamento indiano prima del confine con la Cina, che è ad appena 7 chilometri. Un cartello, che ricorda l’antico «Taci, il nemico ti ascolta», avverte in hindi e in inglese come si mettono le cose più avanti: «Attenzione, da qui inizia il raggio di osservazione cinese». Poco più in là ci sono 300 soldati indiani che si guardano in cagnesco con un battaglione dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese, in quella che è la sfida militare più preoccupante nell’Himalaya. Migliaia di soldati indiani sono mobilitati nella regione e si presume che lo stesso stia accadendo dall’altra parte del confine, in Cina.
Tutto è iniziato per colpa di una stradina sterrata nell’altopiano di Doklam, dall’altra parte del confine, in un territorio che da decenni Pechino si contende con il piccolo regno buddista del Bhutan. Poche decine di chilometri quadrati, però strategicamente importantissimi.
La crisi è esplosa a giugno quando il Bhutan s’è accorto che un’impresa di costruzioni stradali cinesi stava asfaltando una sterrata al confine con l’India. Secondo gli accordi indo-cinesi del 2012 questo non deve accadere, ci si deve tenere lontani dalla possibilità di collegare i due colossi per impedire alla Cina d’incolonnare i suoi carri armati in operazioni di occupazione.
L’India ha fatto subito scattare la Divisione di montagna 17, l’equivalente degli Alpini, per contrastare i lavori di asfaltatura. La Cina ha mobilitato i suoi, chiedendo che l’India faccia passi indietro.
Terra di confine complessa, questa. Montagne inospitali, ma affascinanti. Laghi blu cobalto. Aria tersa alternata a fredde nebbioline. A sud del Bhutan ci sono le 7 sorelle, gli Stati indiani del Nord-Est, che a Sud e ad Ovest confinano con Birmania e Bangladesh. Si tratta di 45 milioni di abitanti collegati con il resto dell’India tramite quello che viene chiamato «il collo del pollo», ovvero il Corridoio di Silguri, un passaggio di 30 km tra Nepal e Bangladesh.
Il timore degli strateghi indiani è che le truppe cinesi possano arrivare a «strozzare il pollo», chiudendo il corridoio e conquistandosi il Nord-Est, compreso Sikkim e Darjeeling. Da Pechino, colonnelli e generali hanno tuonato in una rara conferenza stampa: «Che l’India non si faccia illusioni, la nostra determinazione a salvaguardare la sovranità nazionale è indomabile». La Cina ha diramato un’allerta per i turisti che viaggiano in India e ha sospeso i diritti di transito dei pellegrini indù che attraversano il territorio cinese per arrivare alla montagna sacra del Kailash.
Il conflitto tra India e Cina attorno all’Himalaya è vasto e antico: risale a un accordo del 1890 tra due imperi che non esistono più, quello britannico e quello della dinastia Qing. All’epoca si travisarono le specifiche sulla frontiera, e da allora si è in attesa di un accordo. In questa sospensione si era trovato un certo equilibrio, che ora la mossa cinese sta alterando.
Non ci vedono soluzioni di détente imminenti. Da una parte c’è il premier indiano Narendra Modi che sembra ignorare richieste e minacce cinesi per dimostrare che è un uomo forte, un protagonista serio sullo scacchiere asiatico. Dall’altra c’è il leader cinese Xi Ping che quest’autunno dovrà chiedere al Congresso comunista riconfermarlo nel suo ruolo per un altro quinquennio. Giocare duro può essergli utile.
C’è chi spera che a settembre il summit in Cina dei paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) sia l’occasione per un’intesa su quella stradina nell’altopiano di Doklam, lasciando tirare un sospiro di sollievo al Bhutan, che non vuol certo fare la fine del Tibet.
Ma pare improbabile. Sia Delhi che Pechino sono impegnate a dimostrare al mondo il loro ruolo di importanza globale, e sono sempre più refrattarie a fare passi indietro.
Il pericoloso mezzogiorno di fuoco in alta quota tra due potenze nucleari continua.