La Stampa, 29 luglio 2017
Fra giravolte di Sarraj e mediazioni. Così si è arrivati al compromesso
Al termine di una notte e una mattina di contatti sull’asse Roma-Tripoli, chiuso l’incidente diplomatico, quello che resta nelle stanze del governo è la preoccupazione di avere nel capo del governo riconosciuto dall’Onu, Fayez al- Sarraj, un interlocutore molto, troppo debole. Anche più di quello che la complicata realtà libica ha sempre lasciato supporre.
Solo tre giorni fa, il nostro presidente del Consiglio Paolo Gentiloni annunciava la richiesta di navi italiane nelle acque libiche avanzata per lettera da Sarraj, che annuiva in piedi accanto a lui: «Dobbiamo ricordarci del ruolo importante svolto dall’Italia», ricordava. Era mercoledì mattina: poco più di ventiquattr’ore, e una sua nota giovedì sera segna una inspiegabile (vista da Roma) retromarcia.
È in quella giornata e mezzo che, in Libia, maturano infatti le condizioni del passo indietro. Mentre Sarraj, lasciata Roma, raggiunge Londra, dai suoi uomini a Tripoli scopre che in patria, da varie parti a lui alleate, si alzano critiche e malumori ad aggiungersi a quelli contro il suo incontro parigino con Haftar. Complici forse i titoli dei media italiani che arrivano sull’altra sponda del Mediterraneo, viene accusato di voler favorire l’invasione di Roma, tasto come si può immaginare molto sensibile in una terra in passato oggetto di conquista italiana. Non a caso, nella sua nota Sarraj chiarisce che «non consentirà la violazione della sovranità nazionale libica»; altrettanto mirate sono le frasi di ieri di Gentiloni dirette ai giornalisti in conferenza stampa, al termine del Consiglio dei ministri: «Non rispecchierebbe la sostanza delle decisioni del governo presentare la missione come un enorme invio di flotte, squadriglie aeree e cose di questo genere», si raccomanda.
Perché, avvertito della retromarcia di Sarraj, giovedì sera per il governo, irritato dalla giravolta libica, inizia una difficile notte di trattative, portate avanti da Palazzo Chigi e soprattutto dal ministero dell’Interno. Obiettivo, far capire alla controparte dall’altra parte del mare che l’accordo è fatto e non si torna indietro, e trovare le parole giuste per evitare che suoni alle loro orecchie come un tentativo di occupazione italiana. Il testo limato e corretto arriva da Tripoli: spiega che nell’ambito del «sostegno tecnico, logistico e operativo per aiutare la Libia nella lotta al traffico di essere umani e salvare i migranti» da loro richiesto, ci sarà la possibilità di usare navi italiane, che però «potranno operare dal porto di Tripoli, solo per questa ragione e in caso di necessità», mentre «non si accetterebbe nessuna interferenza di questo genere senza un’autorizzazione preventiva e con un coordinamento con le autorità libiche all’interno del territorio e delle acque territoriali libiche». Un modo insomma per circoscrivere l’intervento italiano a navi e uomini che potranno solo accompagnare la Guardia costiera libica in un’operazione di supporto: «Né più né meno di quanto ci hanno richiesto», chiarisce Gentiloni al termine della riunione dei ministri. Che si protrae per oltre un’ora, nell’attesa che proprio quel testo «pacificatore», quella «nota di chiarimento» utile a spazzare via ogni ambiguità venga finalmente resa pubblica da Tripoli.
L’incidente così rientra, il provvedimento del governo è pronto, martedì ne discuterà il Parlamento. Lascia però dubbi sull’affidabilità di un interlocutore politico molto sotto pressione nel caos libico.