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 2017  luglio 28 Venerdì calendario

Guerra alla goccia, così nasce il costume perfetto

BUDAPEST Dietro al costume, tutto. «Io a Tokyo lo voglio nero, non fluo», ordina Sarah Sjostrom, bionda sprinter svedese. I sarti dell’acqua nuotano già verso Tokyo 2020. Anzi tagliano costumi per la nouvelle vague dei campioni. Peaty, Metella, Paltrinieri. Sei record mondiali migliorati a Budapest nell’anno post-olimpico. Finita l’era dei costumoni, dell’armatura in poliuretano, vero doping tecnologico e psicologico, (43 primati del mondo a Roma 2009) tanto che i coach di nuoto per orgoglio di categoria minacciarono la serrata, la ricerca continua, con brevetti e segreti. Uno dice: è solo un costume, illusi voi che ci credete. Tutto per imitare i delfini. Dietro c’è una Nasa dell’acqua, da Tarzan ad Avatar. Nel mondo si vendono tra i 700 e i 900 mila costumi da gara, 150 mila sono firmati Arena. L’azienda di Tolentino si avvale di una cascata di collaborazioni scientifiche: un docente francese di biomeccanica a Reims, i laboratori all’università di Liegi, in Belgio, il Water Thank e a Berlino una struttura Flume che è come un acquario con correnti e zone di turbolenze per osservare le forze di penetrazione, poi all’ università di Bologna c’è il ricercatore di scienze, Giorgio Gatta, e un gruppo di ricerca multi-disciplinare a Cambridge, in Inghilterra, più la supervisione dello specialista francese Michel Joseph. Forse c’è meno studio in una casa di alta moda che in quel pezzo di costume che indossa Greg (Paltrinieri). Ogni movimento superfluo della massa muscolare equivale a una dispersione d’energia e a un’alterazione dell’assetto ideale, con conseguente produzione di acido lattico e fatica. Non è un caso che la ricerca si basa su dati in gran parte condivisi con Formula Uno e Coppa America di vela. Il corpo di un nuotatore è esaminato come uno scafo che deve scivolare nel fluido. Trama e ordito, chaîne et trame, per avere meno assorbimento dell’acqua nel tessuto e microsfere concave sulla superficie. Giuseppe Musciacchio, ceo di Arena, spiega che il mercato si è allargato: «La gioventù che va in piscina e i Master vogliono essere competitivi e avere il meglio. Ma è vero che i grandi campioni sentono l’acqua e ci riportano impressioni che noi stiamo a sentire. La costruzione di un costume è fatto di molte vasche: nasce a Tolentino, passa per il filato vicino a Como, va in Slovacchia, dove avviene il taglio al computer, ma la saldatura è a mano, perché i robot non possono lavorare una maglia elastica, poi torna da noi per il controllo qualità. La guerra è alla goccia, se una sola ne penetra nel costume è una sconfitta. Per Tokyo 2020 continuiamo a studiare impermeabilità, secondo le regole Fina, e la compressione, che riduce la vibrazione naturale del muscolo in acqua e favorisce il l flusso sanguigno. Estetica, taglie, gusti sono diversi. Gli italiani vogliono la vita bassa, gli americani alta, ci siamo anche accorti che le atlete statunitense hanno di media una coscia di cinque centimetri più grande delle europee. Il costume femminile è più complicato, perché copre più superficie, e nel momento in cui l’atleta si tuffa in acqua, i punti critici sono sotto il collo e sotto le ascelle, dove può entrare la goccia. Siamo tornati ad avere un rapporto più equilibrato tra nuotatore e costume, ma non è vero che quel monopezzo non conta e che uno vale l’altro. Tanto che gli atleti ci tengono a fare le prove dei nuovi modelli e a comunicarci le loro sensazioni». E pensare che il primo della specie, il primo modello, fu Marc Spitz che nel ’72 era così dimagrito che di costumi ne portava due.