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 2017  luglio 28 Venerdì calendario

I piccoli soldati di Boko Haram

Quando ripensano a casa loro, la cittadina di Baga sulle rive del lago Ciad, nel Nordest della Nigeria, ricordano una vita piacevole per tutti. Al tramonto i pescatori gettavano le reti nelle acque verdi e blu del lago, facendo attenzione a evitare i punti dove la gente della città andava a nuotare e a lavarsi. Il mattino seguente, dopo la preghiera, uomini e bambini – così tanti che era impossibile contarli tutti – tornavano al lago per recuperarle. Alcuni correvano “veloce-veloce” nelle acque fredde, altri procedevano con cautela, preparando il corpo al gelo dell’acqua e controllando che non ci fossero oggetti nascosti sotto la superficie. Ogni pescatore riconosceva a vista la sua rete, contrassegnata con nastri di plastica e legno. Se qualcuno faceva confusione era intenzionale, perché voleva rubare il pesce di qualcun altro. I bambini conoscevano la punizione per chi rubava: sortilegi che potevano distruggere la vita di uomo, fargli perdere la clientela e farlo vergognare a tal punto da non osare più mettere piede nel mercato cittadino.
Quando erano le 10, i bambini camminavano attraverso le sabbie sempre più invadenti del Sahara fino alle case di fango e cemento di Baga, per vedere se i loro genitori avevano qualche compito da assegnargli. Solo pochi andavano a scuola, perciò nel pomeriggio gravitavano la maggior parte del tempo intorno a quello che chiamavano «il lungofiume», dove gli piaceva andare anche se non avevano niente da fare. I ragazzi del gruppo di Kolomi si radunavano sulle sponde di fango ed erba, sotto un albero frondoso. Si erano dati il nome di Ajegunle, un quartiere di Lagos, anche se all’epoca non lo sapevano: semplicemente, gli piaceva il suono di quella parola. Gli piaceva ridere e organizzare scherzi: pedalavano a marcia indietro sulle loro bici andando a sbattere contro gli alberi e addestravano due cani dal pelo marrone per insegnargli a cacciare le lepri. Avevano chiamato la femmina Ramat, come la scuola di Kolomi, e il maschio Cena, come il wrestler americano John Cena, che vedevano sui televisori in città con i suoi vestiti dai colori sgargianti.
Fannami, un tredicenne piccolo e ossuto, con i muscoli in rilievo e gli occhi grandi contornati da ciglia spesse, guardava ammirato i cani degli Ajegunle da casa sua. Come avevano fatto ad addestrarli così bene? Come facevano a scattare così veloci quando Kolomi li chiamava, e poi a fermarsi di botto sulle zampe posteriori, come se fossero pronti a ballare? Da quando suo padre era morto, era Fannami a sostenere la famiglia, e stava spesso a casa con sua madre. Salutava Kolomi ogni volta che passava, e Kolomi, un dodicenne basso e ben fatto, con un sorrisetto furbo, ricambiava il saluto. Nessuno dei due chiacchierava mai con Mustapha, anche se conoscevano quell’adolescente allampanato con gli occhi come due fessure, che parlava sempre sussurrando. Il suo gruppo aveva costruito un capanno per marcare il territorio e aveva una reputazione, perché lì si fumavano tabacco e cannabis. Fannami e Kolomi sapevano che se Mustapha si arrabbiava non perdonava facilmente. La mamma di Mustapha era morta quando lui era piccolo, e aveva sentito le altre due mogli di suo padre dire cose cattive su di lei prima che morisse. Anni fa qualcuno avevo fatto un sortilegio a suo padre, anche se non sapeva perché. Sapeva solo che il padre aveva perso il suo negozio di alimentari, dove vendeva cose come spaghetti e sapone, e che non poteva più frequentare il mercato. Alla fine si ammalò. Mustapha, che aveva 15 anni, non voleva problemi di quel tipo nella sua vita. Evitava quasi tutti, tranne il suo migliore amico, Abba, di qualche anno più grande di lui. Si raccontavano tutto.
Era raro che si vedessero dei forestieri sul lungofiume, ma i ragazzi ricordano il momento in cui le cose cominciarono a cambiare. Fin da piccoli avevano sentito parlare di Boko Haram, che significa, più o meno, “L’educazione occidentale è peccato”. Era un gruppo nato all’inizio degli anni 2000 come movimento di protesta pacifico, quasi 200 chilometri più in là, a Maiduguri, la capitale dello Stato del Borno. Il suo leader carismatico, Mohammed Yusuf, predicava l’introduzione della shari’a e una spartizione più equa della grande ricchezza petrolifera della Nigeria, per mettere fine alla corruzione endemica. Prometteva di sconfiggere la povertà che affliggeva cittadine come Baga in tutto lo Stato, lasciando villaggi interi senza strade, elettricità e acqua. Quando la madre di Fannami sentì di questo gruppo, interpellò sua sorella. «Guarda quest’uomo, che dice boko haram!», disse. «Significa che non dovremmo iscrivere i nostri figli a scuola?». Era una donna buona e devota. Aveva insegnato il Corano a Fannami in casa e gli aveva detto di non chiedere mai l’elemosina, di non sparlare mai degli altri e di cercare sempre di perdonare. Decise che Yusuf aveva ragione. Lungo la riva del fiume, tutti dicevano: «Sono persone per bene venute a fare l’opera di Dio».
Ma nel 2009, dopo anni di tensioni crescenti e violenze sporadiche, l’esercito nigeriano uccise centinaia di seguaci di Yusuf, catturò Yusuf stesso e lo consegnò alla polizia, che lo uccise mentre era sotto custodia. Boko Haram entrò in clandestinità. Sotto la guida di Abubakar Shekau, l’ex braccio destro di Yusuf, il gruppo divenne sempre più estremista e cominciò ad attaccare le forze di sicurezza e i politici per vendicare i suoi morti. La rivolta si estese per tutto lo Stato, e coinvolse anche Baga: un giorno, degli uomini armati a bordo di motociclette uccisero un politico nel mercato centrale. Mustapha vide che nessuno diceva nulla: era una questione tra il governo e Boko Haram. Fu allora che uomini sconosciuti cominciarono ad arrivare sul lungofiume, con i fucili a tracolla e le teste avvolte in turbanti che lasciavano scoperti soltanto gli occhi. Compravano le cose che gli servivano e se ne andavano. A volte Mustapha aveva paura di loro, ma voleva vendere il suo pesce e i guerriglieri erano clienti: non erano cose che lo riguardassero.
Gli uomini di Boko Haram diventarono sempre più spavaldi, e le loro parole sempre più minacciose. Cominciarono a rapire e uccidere persone innocenti in altre città: religiosi musulmani, capi tradizionali, cristiani, insegnanti, chiunque si opponesse alla loro ideologia. Anche il tono delle voci sul lungofiume cambiò: tutte le speranze che gli abitanti di Baga avevano riposto nell’organizzazione erano svanite. Poi, un giorno di aprile del 2013, i ribelli uccisero un soldato a Baga. L’esercito per rappresaglia appiccò fuoco al villaggio. Ormai quella era una strategia comune da parte delle forze armate – punizione collettiva e terra bruciata – ma non era mai stata applicata a questi livelli. Per due giorni la terrà rimbombò e i campi bruciarono; molti bambini e le loro famiglie si nascosero lungo il fiume. Quando tornarono, scoprirono che circa 200 persone erano state uccise e 2.400 costruzioni erano state distrutte, case e bancarelle del mercato ridotte a cumuli di cenere e fuliggine. La gente del villaggio giurava di aver visto i soldati gettare bambini tra le fiamme.
Kolomi era all’albero degli Ajegunle con i suoi amici. Era mezzogiorno e i cani si stavano riposando ai loro piedi quando iniziarono gli spari. Ramat e Cena si spaventarono e cominciarono ad abbaiare. Kolomi si guardò intorno: uomini col turbante bloccavano tutti i sentieri che andavano dalla riva alla città. Boko Haram sparò in aria. Alcuni ragazzi corsero dentro il lago, ma altri non furono abbastanza pronti di riflessi. Gli uomini armati miravano a tutto quello che si muoveva. Molti caddero; molti furono sfiorati dalle pallottole; Ramat fu colpita a morte. «Nessuno si muova!», urlarono gli uomini. «Voi tutti, stendetevi a faccia in giù!». I ragazzi ubbidirono. Anche quelli più grandi, anche quelli più coraggiosi; Kolomi, Fannami, Mustapha e un tredicenne alto di nome Zanna, il cui gruppo si riuniva nelle vicinanze, si gettarono faccia al suolo. Gli uomini gli legarono le mani con le corde. Chi protestava veniva sgozzato; da terra, i ragazzi potevano sentire i suoni. I guerriglieri gli ordinarono di salire su dei camion che stavano lì in attesa.
Il viaggio nell’oscurità
Era affollatissimo, dentro. Troppo calore e troppo poca aria. I camion partirono, senza fare fermate, senza acqua. Il sole si spostava nel cielo. Alcuni ragazzi morirono, accasciandosi sopra altri ragazzi, un groviglio di arti nerboruti di adolescenti che gemevano, tremavano e poi pian piano si irrigidivano. I sopravvissuti non percepivano più nulla. Forse era tramontato il sole, forse era calato un altro tipo di oscurità, forse era cominciato il crepuscolo, ma loro non se ne accorgevano. I camion si spostavano verso nord, lungo strade polverose. Avanzavano sobbalzando attraverso boschetti di alberi di neem, acacie malferme e i resti carbonizzati di altri villaggi distrutti da Boko Haram o dall’esercito.
Nel corso di un assedio di quattro giorni, nel gennaio del 2015, Boko Haram portò via a forza i ragazzini di Baga. Nessuno sa con esattezza quanti furono catturati, ma sembra che ogni famiglia o quasi abbia avuto almeno un figlio o una figlia portati via. Era come se un intero villaggio popolato esclusivamente di ragazzini fosse svanito nel nulla. In tutto lo Stato del Borno, quell’anno, Boko Haram seminò devastazione in villaggi come Baga, saccheggiando, incendiando, depredando, assumendo il controllo del territorio o sequestrando persone per portarle nelle loro basi. Dalle terre aride della frontiera settentrionale con il Niger alla foresta di Sambisa nel Sud, la guerriglia sembrava non avere più confini: Camerun, Niger e Nigeria non erano al sicuro. Boko Haram stava espandendo il suo esercito.
I camion alla fine si fermarono di fronte al palazzo di un capo tradizionale, con le alte arcate che si aprivano su stanze maestose e cortili di sabbia. Quando Fannami uscì dal camion era buio: riusciva a vedere solo altre persone, che marciavano tutte fino a una grande sala, dove vennero fatte sedere. Cercavano di stare in silenzio, ma si sentivano dei sussurri.
«Questa stanza è caldissima».
«Abbiamo fame».
«Vogliono ucciderci e voi parlate di queste cose?».
Un ragazzo accanto a Mustapha gli sussurrò: «Tu non pensi che queste persone vogliano ammazzarci?». «Se volevano ammazzarci», gli sussurrò in risposta Mustapha, «ci avrebbero ammazzati laggiù: perché prendersi il disturbo di portarci qui?».
I ragazzi ricordano ognuno in modo diverso il momento in cui furono accolti nella loro nuova vita: Zanna vide un omone con un turbante, che si rivolse a loro in arabo. Uno dei sequestrati disse che non capiva la lingua e l’omone alzò l’arma, ma invece di sparare rise fragorosamente. «Imparerete i vostri errori», disse. «Siete venuti dove potrete godervi la vita». «È Dio che vi ha scelto per unirvi a noi e fare l’opera di Allah», sentì Fannami. «Perciò, se collaborerete, lavoreremo insieme. Se non collaborerete, quello che succederà starà a voi. Noi vi addestreremo e vi equipaggeremo per andare a uccidere i pagani». Quelli intorno a lui gridarono «Allahu akbar!», ma Fannami non si unì al coro. Pensava a sua madre, che era a casa quando le violenze erano cominciate: era ancora viva?
«Vi avviso tutti», dissero a Mustapha, «qui chiunque disobbedisce a qualunque regola viene sgozzato come un montone». Vide un uomo più grande che si alzava in piedi. «Quello che avete fatto non è giusto!», disse. Un guerrigliero più giovane si avventò sull’uomo che aveva parlato. «Tu sei quello che vuole contestare l’autorità?», gli chiese tirando fuori il coltello: lo trafisse allo stomaco e poi gli tagliò la gola. Il corpo dell’uomo cadde pesantemente sopra quelli seduti intorno a lui. Il guerrigliero ordinò ad altri due di staccargli la testa. I ragazzi rimasero seduti nella sala tutta la notte. Gli diedero qualche manciata di datteri e un po’ d’acqua. Forse era stato fatto un sortilegio sul cibo e sull’acqua, perché nessuno riuscì a dormire. Il mattino seguente, i ragazzi furono stipati nelle stanze del palazzo, fra i 30 e i 50 in ognuna. Faceva caldo, e gli avevano vietato di aprire le finestre. Tutto quello che avevano era qualche stuoia sparsa sul pavimento. Quelli di Boko Haram gli passavano un piatto di riso una volta al giorno. Non gli dicevano niente, lasciandoli soli con la loro paura e i loro sussurri.
Dopo una settimana, aprirono le porte e dissero ai ragazzi che dovevano spostarsi. Cominciava l’addestramento all’uso delle armi. Li portarono in camion attraverso Malam Fatori, un piccolo snodo commerciale al confine con il Niger, circondato da villaggi più piccoli, a un’ottantina di chilometri da Baga. I ragazzi notarono che le case qui erano separate dai terreni agricoli e dagli alberi, non era tutto ammassato insieme come da loro. Guardando fuori, si potevano scorgere villaggi anche a distanza di un chilometro. In una scuola elementare, i guerriglieri li divisero in tre gruppi e distribuirono turbanti e armi da fuoco. Quando arrivò per la prima volta a Malam Fatori, Zanna vide un sequestrato che gridava il nome di una persona che aveva riconosciuto: i guerriglieri spararono a quella persona. «Se identificate qualcuno, lo uccidiamo», dissero a tutti. I ragazzini diventarono sordi e muti. Impararono a comunicare con gli occhi.
Gli istruttori gli insegnarono come usare un Ak-47, come caricare le munizioni e come prendere la mira. Impararono che se volevano uccidere il nemico all’istante dovevano sparare alla testa, al petto o allo stomaco, ma se volevano portarlo al campo per farlo a pezzi, dovevano sparargli alle mani o alle gambe. Gli davano da mangiare di più durante l’addestramento: tre volte al giorno le prigioniere donne preparavano per loro pietanze come il biski, un piatto locale a base di farina di mais, con carne o zuppa di verdure. Gli davano anche datteri e acqua. L’acqua era torbida e i ragazzi continuavano a chiedersi se ci fosse sopra un sortilegio: altrimenti perché dopo averla bevuta si sentivano così strani? Cominciavano a essere molto interessati a imparare le cose che servivano per essere come quelli là.
Zanna si sentiva così forte che si immaginava di poter sollevare l’omone e buttarlo via. Mustapha aveva l’impressione di non provare nessuna sensazione.
All’inizio quelli del gruppo di Mustapha sparavano contro dei sacchi di sabbia, ma a un certo punto i guerriglieri portarono fuori otto o nove persone che erano state condannate a morte. Dissero al gruppo di Mustapha di formare una U intorno a loro. I ragazzi puntarono le armi. Mustapha mirò a uno degli uomini: era di carnagione chiara, alto e magro. Quando gli istruttori dissero «Fuoco!», Mustapha sparò. Spostò la sua arma verso un secondo uomo e sparò anche a lui, poi al terzo. Era sicuro di essere stato lui a uccidere il primo, ma non sapeva se aveva ucciso il secondo. Oggi, quando Mustapha ripensa a tutti gli uomini che ha ammazzato, non riesce a ricordarli: ricorda solo quelli con cui ha cominciato.
La generazione rubata
Il conflitto tra Boko Haram e lo Stato nigeriano, che prosegue da otto anni, ha ucciso più di ventimila persone e creato milioni di profughi e sfollati. La gente fuggiva dalle zone controllate da Boko Haram di nascosto, la notte, o scappava in massa dopo un attacco su larga scala, e andavano a Maiduguri. Solo quando i genitori hanno cominciato ad affluire in città gli operatori umanitari si sono accorti di un nuovo aspetto del problema. Vedevano le folle di donne e bambine che arrivavano e si chiedevano: dove sono i maschi? Nessuno sa esattamente quanti ragazzini siano stati sequestrati, ma le stime parlano di diecimila: una generazione rubata.
Come molti gruppi armati, Boko Haram usa una varietà di metodi per trasformare l’identità di un ragazzino sequestrato e recidere i legami con casa sua, rendendo difficilissimo tornare alla vita di prima. È una separazione intellettuale ed emotiva che oltrepassa la separazione fisica. Incrementando progressivamente il coinvolgimento del ragazzino nelle azioni violente, il gruppo lo risocializza. L’addestramento spezza la sua volontà, e la prima uccisione è una sorta di battesimo. Il rituale diventa importante. I sortilegi e la magia riducono il senso di colpa. Uccidere diventa normale. Più la violenza è gratuita – stupri di gruppo, sacrifici cerimoniali, mutilazioni e uccisioni di vicini o parenti – più diventa difficile contemplare un ritorno a casa. I bambini vedono o percepiscono le atrocità che commettono come un sogno surreale, e questo gli consente di esistere in una condizione che è a metà strada fra il loro io precedente e la realtà della loro nuova vita.
Alcuni ragazzi vivevano in due dozzine di tende di tela cerata nella boscaglia, altri in intere cittadine occupate, come Malam Fatori. Alcuni sono rimasti dentro le case per tutto il tempo del loro sequestro, indottrinati all’ideologia di Boko Haram. Altri si sono visti assegnare mansioni di vario genere, da quelle logistiche fino a quelle tattiche. Un ragazzino doveva girare tutto il giorno con una bicicletta per il campo, portando il tè. Alcuni avevano il compito di saccheggiare i villaggi, caricando i camion con gli oggetti trafugati, rovistando fra i cadaveri per cercare banconote e gioielli. Un bambino che aveva fatto la quinta elementare era stato convocato dall’emir più importante del suo accampamento per fargli da assistente personale con il telefono satellitare: l’emir era analfabeta, perciò il ragazzo aveva il compito di salvare i numeri di telefono e leggergli ad alta voce il nome del chiamante. Un altro guidava una motocicletta avanti e indietro dai pozzi per portare l’acqua nell’accampamento. Abuar, che mi ha detto di avere 16 anni (anche se non ne dimostrava più di 13), aveva il compito di caricare un cannone antiaereo montato sul retro di un pickup Toyota Hi-Lux; a volte doveva andare dietro ai combattenti con un sacco pieno di caricatori di riserva, e lanciarglieli quando avevano finito le munizioni. Un altro ragazzino con cui ho parlato trasportava le taniche di benzina usate da Boko Haram per radere al suolo i villaggi.
Abuar mi ha raccontato di una strategia che usava il suo comandante. Quando dovevano affrontare l’esercito, i ragazzini della sua unità, la “nuova pesca”, come venivano chiamati, avevano l’ordine di guidare l’avanzata, sparando all’impazzata. Dietro di loro venivano i pastori fatti prigionieri, con i loro greggi di mucche e montoni. I guerriglieri esperti, a piedi o a bordo di autoveicoli, venivano per ultimi e passando osservavano il numero di animali morti. «In base al numero di animali uccisi determinavano la potenza di fuoco dei militari e decidevano se continuare a venirci dietro o scappare via», mi ha spiegato Abuar. Gli ho chiesto perché contassero gli animali uccisi, invece dei ragazzini uccisi. «Non contano i nostri cadaveri», mi ha spiegato, «perché l’idea è che gli esseri umani possono schivare le pallottole o nascondersi per non essere colpiti, mentre gli animali si muovono e basta: vengono uccisi più facilmente». Alla fine dell’operazione, mi ha detto, i guerriglieri «radunavano gli animali morti insieme ai cadaveri della ‘nuova pesca’, li davano alle fiamme e se ne andavano». Una pila di bestiame e ragazzini morti che bruciava.
Finito l’addestramento, i ragazzi furono riportati nel palazzo di Malam Fatori. L’edificio più grande era adibito a residenza privata del capo, il babban emir, ma c’erano anche altre strutture, un dedalo di spazi destinati a scopi che i ragazzi non conoscevano. Li fecero riunire nel cortile di sabbia e di fronte a loro c’era il babban emir con due dei suoi luogotenenti, che i bambini chiamavano «secondo emir» e «terzo emir». Alto e maturo, il babban emir indossava la gellaba e il berretto tradizionali. Mustapha non sa con esattezza quanti anni avesse, comunque non più di trenta. Il babban emir suddivise i ragazzi: Kolomi fu assegnato all’unità del terzo emir e gli dissero di alzarsi e seguire il suo nuovo capo. Mustapha e Zanna, più grossi e forti, furono assegnati alla sorveglianza del palazzo del babban emir.
Zanna fu mandato nel posto di guardia sul lato posteriore del palazzo, insieme ad altri venti. Cercava di non parlare con nessuno: non era sicuro. Ogni giorno, dal momento del suo sequestro e per tutto l’addestramento, pregava in silenzio di avere un’occasione per fuggire. Anche Mustapha aveva paura, ma soprattutto era confuso. Era un problema senza soluzione, nessun aiuto sarebbe arrivato.
I bambini sequestrati furono risucchiati dal ritmo della vita nell’accampamento. L’attività si concentrava intorno al palazzo: tutti lavoravano per fortificare il cuore della base contro le forze armate nigeriane, che periodicamente sondavano le difese di Boko Haram con l’obbiettivo di provare a riconquistare Malam Fatori. Boko Haram aveva proclamato il califfato e l’alleanza con l’Isis e da quel momento si era scatenata una lotta senza quartiere per il controllo di quelle terre aride. Ogni mattina, gli emir subordinati, le cui unità erano dislocate nei villaggi circostanti per proteggere il centro, venivano a salutare il babban emir, entrando nel palazzo per un’udienza privata. Le direttive di Shekau probabilmente venivano trasmesse attraverso telefoni satellitari. C’era coordinamento anche con gli altri babban emir, ma i ragazzi di Malam Fatori non hanno mai avuto contatti con le roccaforti vicine. Boko Haram era un’organizzazione gerarchica, ma al tempo stesso frammentata, con ogni reparto preoccupato di assicurare la propria sopravvivenza.
Al mattino, i gruppi partivano di pattuglia a bordo dei loro camion, perlustrando le aree intorno a Malam Fatori alla ricerca di tracce di movimenti notturni: solchi di pneumatici, impronte di scarpe o di animali. Mustapha accompagnava i guerriglieri di pattuglia senza dire niente: voleva vedere come funzionava tutta la faccenda. Durante il giorno, le donne catturate nelle città vicine cucinavano cibo che i guerriglieri consumavano in tavole comuni. La notte, i ragazzi potevano dormire in qualsiasi stanza del complesso, purché non fosse una delle stanze dove venivano tenute le donne. Non pregavano quasi mai, e nessuno sapeva che giorno fosse: solo il venerdì si distingueva dagli altri, perché gli davano da mangiare riso con stufato di carne. Una sera, dopo cena, Mustapha era seduto in una stanza con le guardie e rifletteva sul suo dilemma. I ragazzi chiacchieravano pigramente alla luce delle torce. Non c’era soluzione, nessun aiuto sarebbe arrivato. Si rifece la domanda: che cosa fare? Ascolta, disse a se stesso, se voglio andarmene da questo posto, devo fare come vogliono loro. È collaborando con loro che riuscirò a ottenere la libertà. Quando se ne accorgeranno, si fideranno di me. No, devo fare ancora di più, devo fare cose che mi procurino la loro ammirazione. Mustapha cominciò a cercare l’occasione giusta.
“Spara e uccidi”
Dopo l’addestramento con le armi, Fannami fu portato in un villaggio nei dintorni di Malam Fatori per essere aggregato alla sua unità. Il loro capo, il secondo emir, era grasso e ben pasciuto, con la casa rinfrescata da un condizionatore alimentato con un generatore. Disse alle nuove reclute che loro erano le Forze speciali, una formazione d’assalto per le missioni pericolose. Fannami apprese che il suo gruppo non accettava nessuno più vecchio di 15 anni. Non volevano persone che pensavano alla loro famiglia.
Iniziò una seconda tornata di addestramento, in cui gli insegnarono come arrampicarsi sugli alberi e tendere imboscate ai soldati, come respingere gli attacchi dell’esercito, come usare un lanciarazzi. Impararono a manovrare diversi tipi di bombe: bombe pesanti che potevano essere fatte esplodere a distanza, altre che si lanciavano a mano e altre ancora che si sotterravano lungo la strada per far saltare in aria i veicoli. Alla fine dell’addestramento, i guerriglieri li riportarono nel palazzo dell’emir, dove Fannami trovò alcuni uomini in uniforme – militari o poliziotti – legati a un palo. «Sparate e uccidete», ordinarono gli istruttori. Se un ragazzo non riusciva a uccidere, gli uomini lo portavano via e lo pestavano a sangue, poi lo riportavano lì un altro giorno per sottoporlo alla stessa prova. Fu così che Fannami imparò a uccidere altri esseri umani. Fannami sapeva che i guerriglieri li tenevano sempre d’occhio. Quando andavano a fare un’operazione individuano quelli che se la cavavano meglio e li ricompensavano. Potevano essere promossi ai sedili anteriori di un camion, o essere autorizzati a «fare amicizia» con una ragazza delle due stanze dove venivano tenute le donne sequestrate. Se i datteri magici o l’acqua incantata non facevano effetto e recuperavi il senno, mettendoti a fare affermazioni incaute sul fatto che volevi tornare a casa o che quello che stavate facendo era sbagliato, se parlavi troppo insomma, ti ammazzavano.
La notte, i ragazzi dormivano a turno nelle case abbandonate del villaggio. Alcune stanze contenevano fino a 10 ragazzi. Non avevano materassi, non avevano nemmeno stuoie. C’erano tantissime zanzare. Quando soffiava il vento, faceva freddo. Fannami si rannicchiava nei suoi vestiti (gli unici che aveva: quelli con cui era stato rapito, una maglietta rossa e dei pantaloni neri, e il suo nuovo turbante). A volte il freddo gli penetrava nel corpo mentre dormiva, e lui si risvegliava e si ricordava di Baga. Laggiù, se faceva freddo, quando si svegliava e si accorgeva che qualcuno gli aveva messo un panno addosso; la mattina chiedeva a sua madre e lei gli diceva che era stata lei a coprirlo. Se c’erano tante zanzare, sua madre veniva nella sua stanza e usava uno strofinaccio per mandarle via, e gli accendeva uno zampirone. Ora, ogni volta che si svegliava, sentiva la mancanza di tutte queste cose.
Fu dopo la prima spedizione di Mustapha in un villaggio, dopo che avevano ucciso molte persone e al ritorno avevano trovato i commilitoni che si complimentavano con loro e gli avevano offerto un grande banchetto celebrativo a base di riso jollof col pesce. Fu dopo che gli avevano ordinato di uccidere un uomo anziano che aveva commesso un reato, non sapeva quale. Fu dopo che gli avevano chiesto di andare con cinque guerriglieri in un villaggio per «una cosetta», e questa cosetta era una decapitazione che avevano chiesto a Mustapha di eseguire, visto che era l’ultimo arrivato. Fu dopo che aveva ucciso un uomo a bordo di una bella moto solo per impadronirsene. (Quando Mustapha ci ripensa ora, è l’unico omicidio che rimpiange: «I primi due li avevo uccisi perché me lo avevano ordinato», spiega. «L’ultimo, nessuno mi aveva chiesto di ucciderlo».) Fu dopo tutti questi tentativi per conquistarsi la fiducia di Boko Haram che un giorno, qualche settimana dopo la fine dell’addestramento, si offrì volontario per individuare due guerriglieri che erano stati catturati e incarcerati dalle autorità.
Mustapha seguì le loro tracce fino a una stazione di polizia nelle vicinanze. Quando arrivò, fingendo di essere uno del villaggio, la polizia lo fermò e gli chiese che cosa stava facendo. Lui domandò se poteva fare qualcosa per aiutarli, ma loro lo mandarono via. Tornato a Malam Fatori, mise insieme un gruppetto di guerriglieri e li condusse alla stazione di polizia, e qui aprirono il fuoco, uccidendo sei agenti. Rapirono due ragazze e liberarono i guerriglieri.
Quando il babban emir sentì quello che era successo, radunò gli uomini dell’accampamento e si rivolse a Mustapha. «Tu sei andato», gli disse. «Tu hai riportato indietro questi due sani e salvi. Tu hai ucciso quei poliziotti. Tu hai preso il loro veicolo e l’hai portato qui. Tu ci sarai sicuramente molto utile. Sono orgoglioso di te». «La ringrazio moltissimo», rispose Mustapha, e offrì al babban emir le ragazze che aveva rapito. «Le regalo queste ragazze».
«Ora tu sei il secondo emir del campo», disse il babban emir a Mustapha, e gli diede un nuovo nome. Gli altri due emir furono declassati a terzo e quarto. Tutti gridarono «Allahu akbar!» e spararono in aria. Il babban emir spartì di nuovo tutti i guerriglieri riuniti tra i vari emir e condusse Mustapha alla sua nuova base, un villaggio abbandonato accanto alla città. Ispezionarono il terreno insieme. La nuova casa di Mustapha aveva una camera padronale con un letto e un materasso, e oltre a questo, ed era la cosa che a Mustapha piaceva di più un salotto con un grande tappeto, due sedie di legno e abbastanza finestre per far scorrere bene l’aria. Ora aveva tre camion a sua disposizione, anche se non sapeva guidarli. Quella notte, tutta la confusione precedente svanì. Mustapha aveva trovato la sua soluzione. Farò di tutto per eseguire gli ordini del babban emir, giusti o sbagliati.
La notte in cui il terzo emir annunciò l’operazione, Fannami non riuscì a dormire. Prima della preghiera del mattino si preparò, rimboccandosi la camicia nei pantaloni, legandosi il turbante intorno alla testa e infilandosi il grosso elmetto militare trafugato a un soldato morto. Non era mai riuscito a trovare un’uniforme adatta alla sua corporatura magrolina. I ragazzi si infilarono in tasca manciate di datteri e salirono sul retro del camion, mangiando mentre il convoglio si muoveva.
I guerriglieri si stavano ancora organizzando quando il combattimento ebbe inizio. Non si aspettavano che il contingente nemico fosse così numeroso. Questi soldati non erano le solite unità dell’esercito nigeriano, che per lo più sparavano in aria e correvano avanti e indietro senza costrutto. Questi erano organizzati e imperturbabili. ( Più tardi Fannami venne a sapere che erano della Forza congiunta multinazionale, membri delle forze speciali della Nigeria, del Niger, del Benin, del Ciad e del Camerun.) Fannami sapeva che doveva stare in prima linea, a guidare l’assalto. I guerriglieri gli avevano detto che i soldati non amano uccidere i ragazzini. Ma lui odiava stare lì, e cercava sempre di mettersi al centro, o addirittura nelle retrovie. Si guardò intorno alla ricerca di un posto dove ripararsi. Guardando davanti, si rese conto che in prima linea moltissimi erano stati uccisi. Ebbe un blackout mentale; il cuore gli batteva forte, le gambe gli tremavano. Anche altri dovevano provare le stesse sensazioni, perché molti stavano tornando indietro. Fannami cercò di correre via, ma inciampò e cadde: qualcosa di metallico gli aveva perforato l’infradito.
Vide un ragazzo che gli passava accanto correndo fermarsi: buttò via il suo fucile e se lo caricò in spalla. C’era moltissimo sangue: mentre il ragazzo correva, il sangue di Fannami gli gocciolava sui pantaloni. Quando il ragazzo fu stanco, lo mise giù.
«Grazie», disse Fannami. «Avevo paura, ma non potevo lasciarti lì», rispose il ragazzo. «Dovevo portarti via». Si chiamava Sale. Fu in quel momento che Fannami decise che questo ragazzo sarebbe stato suo amico.
Una notte Fannami sognò che i guerriglieri gli dicevano che la guerra era finita, che avevano conquistato la Nigeria. «Tornate tutti a casa!», dicevano. Quando Fannami tornava, sua madre lo vedeva e piangeva: «Dove sei stato? Ti sei rovinato, hai commesso tantissimi peccati». Lo metteva in una stanza, gli faceva il bagno e gli cambiava gli abiti. Nel suo sogno, era felice.
L’unità di Fannami una volta fece un’incursione in un villaggio senza sapere che c’erano i militari. I soldati uccisero molti dei loro, ma alla fine i guerriglieri li cacciarono dal villaggio. Ai ragazzini dissero di tornare indietro e portare via i corpi dei loro eroi caduti. Quando Fannami arrivò, vide tantissimi corpi: bambini ancora più giovani di lui. Non sapeva i loro nomi, ma alcune facce le aveva viste. Aiutò a trasportarli in una fossa poco profonda. Anch’io potrei essere ucciso, pensò, e sarà così che raccoglieranno il mio corpo e lo seppelliranno. Dopo che ebbero finito, trovò un albero e ci si arrampicò sopra. Non sapeva cos’altro fare. Solo tra i rami, si mise a piangere. Dopo aver seppellito quei piccoli corpi, i guerriglieri lasciarono al villaggio parecchio tempo per dimenticare che Boko Haram fosse mai venuto da loro. Poi tornarono lì e uccisero ogni maschio giovane che trovarono; rapirono le donne, i bambini e perfino i vecchi. Il crimine del villaggio era stato ospitare i soldati. A Fannami sembrava giusto.
Mustapha ora non aveva nessuna restrizione, tranne la consueta visita mattutina al palazzo per rendere omaggio al babban emir e ricevere le istruzioni. Alla base, Mustapha decideva tutto. Per le infrazioni minori, quelle punibili con delle frustate, di solito non lo disturbavano, ma le esecuzioni spettava solo a lui a deciderle. Doveva prendere scelte di questo genere circa una volta al mese, ma non gli pesavano: le regole le conoscevano tutti. I colpevoli non venivano mai uccisi con le armi da fuoco, sempre sgozzati con il coltello. Nel suo accampamento c’erano uomini che avevano il compito di raccogliere il sangue delle esecuzioni, metterlo in un secchio di plastica nero e tenerlo da parte perché i combattenti che tornavano dal fronte potessero lavarcisi le mani. Mustapha non sapeva perché lo facessero, sapeva semplicemente che quando era arrivato i guerriglieri si lavavano le mani col sangue, e così anche lui, quando tornava dalla battaglia, lo faceva: si lavava le mani nel sangue affondandole nel secchio, tirandole fuori e sfregandosi i palmi.
Mustapha scoprì che la sua nuova vita gli piaceva così tanto che non voleva nemmeno ricordare di essere stato un pescatore. Ogni mattina si svegliava presto e faceva colazione. I ragazzi gli portavano l’acqua per lavarsi e il suo bagno era sempre ben provvisto di sapone e crema. Le donne che lavoravano nella sua casa chiedevano che cosa voleva per cena e gli lavavano i vestiti. Ora aveva una dozzina di abiti tra cui scegliere, compreso un giubbotto mimetico riservato agli emir. Alle 7 del mattino andava nella sua base e inviava i suoi uomini di pattuglia, poi passava la giornata seduto insieme a loro, ad ascoltare le loro chiacchiere. Mustapha era giovane, quindi adottò una strategia: non trattava mai male senza motivo i suoi sottoposti, non ordinava mai agli altri di portargli qualcosa, faceva tutto da solo e parlava raramente. In questo modo, quando dava ordini ai suoi uomini, con la sua voce bassa e pacata, loro sapevano che faceva sul serio. Mustapha aveva notato i grandi cambiamenti che erano avvenuti in lui. Giù a Baga, se vedeva un cadavere che veniva portato al cimitero, rimaneva agitato tutto il giorno: di notte per la paura lasciava la sua stanza e dormiva insieme ai suoi fratellastri. Ma da quando era arrivato a Malam Fatori, a volte si trovava a chiedersi: sono la stessa persona? Io, che non volevo vedere cadaveri, ora posso passarci in mezzo e tornare a farmi una bella dormita? C’erano droghe nel campo, vendute da persone che le portavano da fuori. Per Mustapha erano gratis. Prendeva una pillola chiamata Desert 200, che prendeva anche quando era a Baga per aiutarsi a dimenticare tutto ciò che lo turba. Ora si muoveva sempre con un po’ di Desert 200 in tasca: non faceva quasi più nulla di importante senza prenderla.
Ogni volta che una donna, alla base di Mustapha, partoriva un figlio maschio, lui lo segnalava al babban emir, e lo stesso facevano gli altri emir. Un mese dopo la nascita, un uomo del babban emir veniva a prendere il bambino, e tutti lo sapevano. Nel cortile del palazzo, il bambino veniva messo su un tavolo speciale, con un buco in mezzo: tutti potevano guardare mentre stendevano il bambino con il collo sopra il buco. All’emir dell’unità veniva consegnato un coltello speciale – affilato, a doppio taglio e con il manico nero – e lui lo usava per sgozzare il neonato. Il sangue scorreva attraverso il buco e dentro un secchio. Così i guerriglieri sgozzavano i loro figli. Mustapha non poteva fare domande. Aveva sgozzato quattro bambini in questo modo. Era semplicemente una cosa che andava fatta.
Il mio sangue e il suo sangue
Ogni volta che partivano per un’operazione, gli emir subordinati potevano andare nel palazzo del babban emir e scegliersi dei rinforzi. Zanna tremava tutto quando vedeva un emir camminare lungo il perimetro del palazzo. Pregava continuamente dentro di sé che non scegliesse lui. Ma quando veniva il secondo emir, si sentiva più a suo agio. Era sicuro che Mustapha lo aveva riconosciuto, anche se i loro occhi non si incontravano mai. Non lo sceglieva mai per partecipare a un’operazione. Era venuto al palazzo tre volte e non aveva mai scelto Zanna, così Zanna capì che lo proteggeva. Dio ha unito il mio sangue e il suo sangue, si diceva.
La quarta volta, il babban emir accompagnò Mustapha e indicò la postazione di Zanna. «Tu, vai con lui», disse. Zanna si alzò e seguì Mustapha. Il babban emir si girò verso Mustapha. «Sembri arrabbiato», disse. «C’è un problema?». «No, nulla», rispose Mustapha. Zanna lo vedeva che Mustapha era arrabbiato. Mustapha non vuole che io vada in guerra, pensò. Prima della battaglia, l’emir andò a stringere la mano a tutti i suoi rinforzi e gli disse di fare attenzione. Mustapha assegnò Zanna al gruppo nelle retrovie e andò avanti. Quando la battaglia cominciò, Zanna mollò il suo fucile e scappò via. Per questo è sicuro che il secondo emir gli ha salvato la vita, e che non era affatto cattivo. Una sera, mentre stava seduto sul pavimento della sua camera da letto, Mustapha iniziò a porsi il problema. Fuori sentiva le voci di gente che parlava. Si appoggiò al muro e depose il fucile fra le gambe. Usiamo sempre il sangue per lavarci le mani. Sangue di bambini o di ragazzi che vanno a scuola. E forse questo sistema non finirà mai. La cosa continuava a ronzargli nella testa. Forse non finirà mai. Rimase a lungo a rimuginare, poi finì per addormentarsi. La mattina seguente, qualcosa in lui era cambiato. Aveva perso interesse per quel luogo, ma cercava di salvare le apparenze. Usciva di pattuglia e sedeva insieme ai suoi uomini, ma si teneva lontano dal babban emir. Proseguì con la sua routine. Continuava a fare incursioni e a combattere. Dopo, come tutti gli altri, si lavava le mani nel sangue. Ma adesso non immergeva più le mani completamente, solo la punta delle dita.
Qualche settimana dopo, Mustapha viaggiava su uno dei suoi camion, diretto verso la grande strada asfaltata a circa un’ora di macchina dal campo, per assaltare i veicoli che passavano carichi di merci. Al volante c’era il suo amico Mubarak. Mustapha se ne stava in silenzio sul sedile del passeggero, fumando le sue Benson & Hedges. Su quello di dietro c’erano due ragazzi, e altri cinque in piedi nel vano di carico. Di punto in bianco, Mustapha disse a Mubarak: «Senti, sono sicuro che alcuni di noi non vogliono fare quello che facciamo. Lo fanno solo perché non hanno alternative. Sono sicuro che se alcuni di loro avessero l’opportunità di fuggire, lo farebbero senza problemi». Mubarak fece una delle sue risate sommesse, senza dire nulla. «Guarda che dico sul serio. Non sto scherzando», disse Mustapha.
Fermarono il camion sotto un grande albero di acacia. I ragazzi di Mustapha scesero dal veicolo e si fermarono all’ombra dell’albero. Mustapha aprì lo sportello, ma rimase sul camion, di fronte a loro. Si voltò di nuovo verso Mubarak. «Vedi, Mubarak? È proprio come ti ho detto.
 Questo lavoro molti sono stufi di farlo. Se vedono l’opportunità di fuggire non si fanno problemi». Aveva catturato l’attenzione di tutti. «Dico a voi, signori, che ne pensate di quello che ho detto sul camion?».
«Tu sei il nostro capo. Qualunque cosa decidi, noi ti seguiamo», rispose qualcuno, mentre gli altri in circolo facevano sì con la testa. Un altro, più grande di Mustapha, cercava di guardare ovunque, tranne che il suo emir. «No», disse, «stiamo facendo l’opera di Dio. Non possiamo dire che smettiamo e ce ne andiamo. Come fai a dire certe cose? L’opera di Dio non è mai semplice». Cominciarono a discutere. Alcuni dicevano cosa avrebbero fatto se ne avessero avuto la possibilità. Uno disse che non sapeva dove andare, perché non aveva parenti. Altri sembravano rinfrancati dalla prospettiva di tornare a casa. Mustapha fumava in silenzio sul camion. Alla fine, ce n’erano tre che dicevano che non volevano scappare. «Sparategli», disse Mustapha. Gli altri fecero fuoco. Mustapha finì la sigaretta, scese dal camion e guardò i ragazzi rimasti. «Okay», disse. «Andiamo». Decisero di dirigersi verso un crocevia di cui avevano sentito parlare. Lì vicino trovarono un fossato in cui spingere il camion. Ci nascosero dentro i fucili, i coltelli e i turbanti e lo ricoprirono di erba. Mustapha si voltò verso i suoi uomini per impartire l’ultimo ordine: «Dobbiamo muoverci ognuno per conto suo, perché se ci spostiamo in gruppo, anche solo in due, potremmo destare sospetti. Non fate capire che venite dalla boscaglia. Quando vedete dell’acqua, lavatevi». Alzarono tutti le braccia con i pugni serrati, come ultimo saluto. Poi ognuno si girò e iniziò ad andare per la sua strada.
Mustapha camminò per qualche chilometro con gli stivali militari ai piedi, prima di liberarsene gettandone uno dietro e uno davanti. Sapeva che la gente ha paura delle facce sconosciute, così faceva sempre finta di venire da una città vicina. Di notte, cercava le luci di un villaggio, di un lampione o di un fuoco. Dormiva nei mercati locali, dopo che i commercianti avevano lasciato le loro bancarelle. All’alba ripartiva. Impiegò cinque giorni per arrivare a Maiduguri. La città sorgeva in mezzo al deserto, stracolma di persone, automobili, bancarelle e risciò a motore. Mentre Mustapha stava nella boscaglia, Boko Haram aveva continuato a combattere per il controllo del territorio. I campi profughi erano spuntati come funghi: ormai se ne contavano 12. Meno di un quarto dei nuovi profughi si era stabilito nei campi; gli altri avevano occupato edifici o vivevano a casa di parenti. Mustapha andò subito a cercare notizie di Baga: ormai era più di un anno e mezzo che se n’era andato.
Fannami venne catturato dai soldati. Gli legarono le mani e lo sbatterono nel retro di un camion. Aveva più paura adesso di quando era stato sequestrato dai guerriglieri: non era più innocente. Quando il camion andò in panne, Fannami corse via nell’oscurità e si acquattò, strisciando fino a raggiungere un bosco dove passò la notte. Anche Kolomi fu catturato dai soldati. Quando il suo camion si fermò, chiese se poteva andare a fare i suoi bisogni e se la filò anche lui. Appena ebbero l’occasione presero il volo, come gli uccellini dal nido.
Quando Fannami arrivò a Maiduguri, chiese di un quartiere dove si ricordava che vivevano dei parenti. Una volta arrivato lì, chiese della loro casa. Trovò sua madre. Lei si alzò, andò da lui e lo abbracciò. Si sedettero insieme e cominciarono a piangere. Fannami era sporco e trasandato, aveva fame e nel suo cuore sapeva di aver peccato. Sua madre gli disse di andare a farsi un bagno. Gli portò vestiti nuovi da indossare, e lo sfamò con del pollo. Era proprio come aveva sognato. La madre di Fannami gli raccontò che molti abitanti di Baga erano fuggiti. Ma lo avvertì di non raccontare a nessuno cosa gli era successo. Tutti i ragazzi dovevano stare attenti ai soldati e alla Civilian Joint Task Force, una milizia popolare che nel 2013 il governo aveva autorizzato a combattere Boko Haram. Qualsiasi contatto con i guerriglieri era considerato complicità. Gli adulti e i bambini legati in qualche modo a Boko Haram venivano portati nelle famigerate caserme di Giwa, dove restavano a tempo indeterminato, in condizioni disumane. Alcuni ragazzi erano stati stipati in celle con altri 50-100 ragazzi, che avevano il divieto di parlare fra loro e di contattare le loro famiglie finché i militari non decidevano, in modo apparentemente del tutto arbitrario, di liberarli. Le organizzazioni per i diritti umani dicono che gli omicidi extragiudiziali commessi dalla Civilian Join Task Force sono un segreto di Pulcinella.
Una volta che i ragazzini venivano rilasciati, il governo nigeriano li considerava “puliti”. Se si trasferivano in un campo ufficiale, c’erano scuole gratuite e qualche sporadico programma di supporto psicosociale, ma inadeguato alle necessità. Per quelli che tornavano nella comunità, le possibilità erano ancora più ridotte: sostanzialmente dovevano cavarsela da soli. Le organizzazioni umanitarie erano scese in campo per lottare contro la carestia e la malnutrizione acuta, offrire istruzione e consulenza fra pari, ma nessuna di queste iniziative era riuscita a raggiungere i ragazzi con cui ho parlato. Quando gliel’ho chiesto, loro mi hanno risposto che non volevano aiuti. Avevano ragione ad avere paura: sono otto mesi che il governo nigeriano tiene sotto custodia le ragazze di Chibok liberate dalla prigionia.
Una volta tornato, Fannami non sapeva cosa fare della sua vita. «Al mattino, mi precipitavo fuori di casa come se dovessi fare qualcosa di importante. Ma quello che mi stimolava a uscire era guardare i bambini che andavano a scuola. Mi chiedevo: sono senza speranze? Riuscirò mai a essere come queste persone?». Fannami, più di ogni altra cosa, voleva andare a scuola. Durante l’id la festa del sacrificio, Fannami mangiò pollo per la seconda volta e andò allo zoo. Era affascinato dal leone. Lui ci vede come carne, ma non ha il diritto di uscire dalla gabbia e catturarci, pensava. Uscendo, passò davanti a Kolomi. Il ragazzo con i cani! Tornò indietro e si presentò. Kolomi viveva con la sorella maggiore e andava a scuola. Aveva dimenticato molti particolari del periodo trascorso a Malam e non sapeva il perché: era come se qualcuno avesse passato una gomma da cancellare sulla sua memoria, così, a casaccio.
Nessuno sa quanti anni ha
Quando Mustapha arrivò a Maiduguri, aspettò una settimana prima di andare a trovare sua nonna. Gli ci vollero altri due giorni per vedere la sorella maggiore. Gli raccontò che Boko Haram lo aveva tenuto prigioniero in una casa per un mese, fino a quando i soldati lo avevano liberato. «So com’è la società», ha spiegato. «So come trattano i genitori dei ragazzi che si sono uniti a Boko Haram. Perché dovrei mettere i miei parenti in questa situazione?». Se ne andò da casa della nonna appena poté – non si sentiva libero lì – e cominciò a lavare le macchine e i risciò a motore a tre ruote, chiamati keke Napep. I proprietari lasciavano le chiavi nel veicolo, così gli addetti al lavaggio potevano parcheggiarlo una volta pronto, e così finalmente Mustapha imparò a guidare. Decise di frequentare gli autisti, di fare dei turni di guida, e ben presto ottenne un veicolo da uno che gestiva un parco macchine, e iniziò a fare l’autista a tempo pieno. A volte, senza preavviso, viene assalito dai ricordi. Se sta trasportando dei passeggeri, loro se ne accorgono e gli chiedono: «C’è qualcosa che non va? Sembri molto preoccupato». Lui risponde: «Non è nulla». Ma quando scendono, parcheggia sul lato della strada e finge di riparare qualcosa finché non recupera il controllo.
Ho incontrato questi ragazzi in stanze d’albergo che sembravano ora rifugi sicuri ora prigioni. Nessuno di loro sa esattamente quanti anni ha: Fannami e Zanna pensano di essere intorno ai 15, Kolomi dice di averne 14 e Mustapha circa 18, ma sembra più giovane. Tutti si sono scelti da soli i nomi da utilizzare in questo articolo. Giorno dopo giorno, sono tornati a raccontarmi cose che avevano cercato di dimenticare. Sono venuti prima o dopo il lavoro, fra un lavoro e l’altro, dopo la scuola, nel fine settimana. Ho cominciato a chiedermi perché. A differenza di quanto è successo con il sequestro delle ragazze di Chibok, che nel giro di poco tempo ha suscitato un’ondata di solidarietà a livello mondiale, nessuno si è preoccupati dei ragazzi di Baga. Sono sfuggiti all’inferno per arrivare in un mondo che sembra non volerli. Le storie che mi hanno raccontato sulla vita sotto Boko Haram, sui rituali come lo sgozzamento dei neonati e il lavaggio delle mani nel sangue, non erano mai state riportate da nessuno. Ma le loro storie erano coerenti, e nella Nigeria nordorientale circolavano voci al riguardo.
Mentre mi parlava Mustapha stava sempre seduto dritto e immobile. Arrivava sempre puntuale. A differenza degli altri ragazzi, non voleva sapere nulla di me. Pochi mesi prima aveva preso in leasing un autoveicolo. Fra qualche altro mese, diventerà suo. Gli ho chiesto se aveva mai fatto un paragone fra i lussi di cui godeva come secondo emir e la sua nuova vita come autista. Seduto sulla moquette del pavimento, si è appoggiato a una poltrona stendendo le gambe e ha risposto, parlando lentamente: «Se ti ricordi quello che ho detto, ho iniziato lavando le macchine. Poi ho iniziato a fare il secondo autista, affiancando l’autista principale. Poi sono diventato autista. Adesso ho un veicolo tutto mio», ha detto. «Non penso che l’altra vita fosse migliore. Quella era la vita di uno schiavo. Questa è la vita di un uomo libero». Ora ha una fidanzata, che ha conosciuto trasportandola sul suo veicolo; forse un giorno potrebbe sposarla. «Se sono arrabbiato, vado da lei. Lei sa come prendermi. Alla fine ci facciamo una bella risata e mi dimentico che ero arrabbiato». Non le racconterà mai la sua storia. Se glielo chiederà, dice, le risponderà: «Una volta ci portarono via, e noi scappammo».

(Traduzione di Fabio Galimberti)