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 2017  luglio 26 Mercoledì calendario

Misurata, Sirte, tribù, islamisti: il Paese resta instabile e diviso

Nonostante il summit ieri a Parigi, la Libia resta un Paese diviso, frazionato, preda di interessi tribali e controverse influenze degli attori regionali ed europei. Un caos nel quale persino i reduci dell’Isis, battuti in Iraq e Siria, trovano ancora santuari, specie nel Sud del Paese, dove trafficanti di esseri umani e jihadisti spadroneggiano. Nel tentativo di semplificare, giornalisti e commentatori tendono a riassumere il problema nello scontro tra il governo di unità nazionale guidato a Tripoli da Fajez Al Sarraj con il sostegno dell’Onu, da una parte, e quello di Tobruk nei fatti comandato con il pugno di ferro dal generale Khalifa Haftar, dall’altra. In realtà, la situazione è molto più complessa e i due leader sono costretti a mediare continuamente con il caleidoscopio di forze che compone i loro rispettivi fronti. Sarraj, che non ha alcuna esperienza militare in questo Paese sprofondato nella guerra civile dopo la drammatica defenestrazione di Gheddafi nell’ottobre 2011, dipende soprattutto dalle milizie di Misurata per il controllo della regione di Tripoli. E proprio i capi politici e militari di questa piccola Sparta libica amica del Qatar, che l’anno scorso si è dissanguata contro l’Isis nella sua roccaforte a Sirte, sono oggi contrari al dialogo con Haftar.
Ieri, i loro uomini di punta, assieme ai Fratelli musulmani locali e al Mufti di Tripoli, hanno criticato duramente il vertice di Parigi e «l’Europa che interferisce indebitamente negli affari interni libici». A questo proposito, è anche da comprendere la politica del governo italiano, che proprio per tenere vivo il dialogo amichevole con Misurata ha scelto di mantenere aperto l’ospedale militare italiano allestito l’anno scorso per curare i loro miliziani, anche se in effetti i combattimenti su larga scala contro l’Isis a Sirte sono cessati da un pezzo.
Ma anche Haftar è continuamente costretto alla mediazione. I suoi alleati principali sono le tribù della Cirenaica, assieme a quelle berbere (gli Amazig) nella zona delle montagne di Nafusa a sudovest della capitale, oltre ad alcune legate all’universo Tuareg nel Fezzan e larga parte di quelle che in passato sostenevano Gheddafi. Forti di questi appoggi, oltre che del sostegno egiziano, russo e francese, da circa un mese le forze militari di Haftar sono riuscite a debellare quasi del tutto la resistenza dei gruppi filo-Misurata nel cuore di Bengasi, oltre a guadagnare posizioni verso Sirte, attorno all’oasi di Sabha e persino nelle regioni a sudovest della capitale. A questo proposito, è da guardare con attenzione la recente liberazione di Saif al Islam, il figlio più «politico» di Gheddafi, da parte delle milizie di Zintan che stanno nel campo di Haftar. Per il momento Saif potrebbe costituire un utile aiuto per il generale, ma nel prossimo futuro rischia di trasformarsi in un concorrente. È proprio tenendo conto di una situazione tanto complicata che i media libici restano scettici sui risultati del vertice a Parigi. «Già ai colloqui del Cairo agli inizi dell’anno e nel faccia a faccia tra i due leader ad Abu Dhabi in maggio si era parlato di un cessate il fuoco per smantellare le milizie, di una divisione dei compiti tra il militare Haftar e il politico Sarraj e di elezioni entro il prossimo marzo. Ma da allora non è cambiato nulla e poco lascia credere che ciò possa avvenire adesso», sostengono i critici a Tripoli.