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 2017  luglio 25 Martedì calendario

L’Italia di Zaha Hadid. Afragola, la stazione senza treni che tradisce l’eredità dell’archistar

Una delle polemiche più deprimenti degli anni recenti è stata quella contro le «archistar», gli architetti stellari, sontuosamente pagati, per deturpare, dice l’accusa, l’immacolatezza delle nostre città storiche con i loro edifici informi e megalomani. In una società in cui ogni arte ha le sue star, tutte spropositatamente compensate e adulate, chissà perché gli architetti dovrebbero far professione di ascesi. 
Ma che la polemica sia fessa, può constatare chiunque vada al MAXXI (Museo arti del XXI secolo) di Roma, dov’è in corso la mostra L’Italia di Zaha Hadid, fino al 14 gennaio 2018. Prima ancora che della mostra stessa, se è la prima volta che lo visita, potrà godere del piacere squisitamente fisico, cinetico, che dà l’introdursi nello spazio del museo romano che, impiantato sulle ex caserme di via Guido Reni al Flaminio, fu il primo lavoro in Italia dell’architetta irachena naturalizzata britannica, nata nel 1950 e morta a Miami nel 2016, quando era nel pieno della forza creativa e del successo professionale. Tra i principali capi d’accusa mossi alle archistar, quale sicuramente Hadid era, vi sarebbe che i loro edifici non siano funzionali, siano grottesche strutture avulse dal territorio e dagli scopi dei committenti. Così si diceva che il Guggenheim di Bilbao, progettato da Frank Gehry, è un museo che divora le opere che contiene, dato che con la sua “personalità” annienta qualunque collezione d’arte esposta. 
Stessa accusa è stata fatta al MAXXI di Hadid. Accusa curiosa: bisognerebbe forse progettare musei squallidi, insignificanti, per far risaltare le opere custodite? Il sottoscritto ebbe modo di vedere una mostra su Gino De Dominicis al MAXXI, e l’allestimento delle opere di quell’artista lunare e inclassificabile, si sposava perfettamente con il decostruttivismo forse brutale, ma sempre emozionante, dell’architettura di Hadid. Certo, sfilando davanti all’elenco delle opere realizzate in Italia, si rilutta a considerare propriamente «compiuti» e addirittura «inaugurati» (dal premier Gentiloni, lo scorso 6 giugno) progetti come la cosiddetta Porta del Sud, la stazione ferroviaria dell’alta velocità di Afragola. 
Da allora la Porta del Sud, che entro il 2022 dovrebbe diventare il principale snodo ferroviario del Mezzogiorno, è più tristemente nota come «stazione fantasma». Come per il MAXXI all’epoca della sua inaugurazione, anche della stazione di Afragola nessuno discute la spettacolare ingegnosità del progetto, bensì la sua tendenziale inutilità, il suo essere una «cattedrale nel deserto» in cui il passeggero va per vedere questa inaudita bizzarria costruttiva, non per servirsi effettivamente di una stazione ferroviaria che, allo stato, priva dei previsti collegamenti, è sostanzialmente dormiente. Ma anche qui, le accuse di sprechi e visionarietà megalomane non colpiscono nel segno: vero, una stazione deve svolgere innanzitutto la funzione di far spostare delle persone, ma per questo bastava costruire l’ennesima stecca qualunque come si vede in tanti nostri paesi. Una ordinaria bruttura ordinariamente efficiente. Ma purtroppo o per fortuna, l’efficienza non è una priorità al sud, dove c’è un senso della dismisura, della forzatura delle convenzioni, che si è incontrato con lo stile iperbolico di una delle maggiori menti dell’architettura contemporanea. Così come tante grandi opere letterarie o musicali hanno avuto bisogno di tempo per essere comprese, non deve stupirci che anche un’architettura, apparentemente calibrata per l’oggi, abbia bisogno di qualche anno, o decennio, per entrare a regime. Poi si possono fare mille inchieste sulle discariche abusive che contornano l’area della stazione, ma tutto ciò che c’entra con l’opera di Zaha Hadid? La quale d’altronde, tra le archistar era di certo, nonostante la vertiginosa complessità dei suoi progetti, una delle più concrete e con i piedi per terra. Per anni non ha costruito assolutamente nulla, continuando a conquistare i favori della critica e vincendo premi solo in base a progetti. Si può dire che tutta la sua opera sia frutto di un «tardo stile», periodo di commissioni frenetiche, di attività concentratissime e simultanee, con progetti che si intersecavano come quello del MAXXI a Roma e del Center for Contemporary Art di Cincinnati. Gran parte della sua influenza sulle nuove generazioni di architetti si deve non solo alle opere realizzate, ma anche ai suoi disegni e dipinti, che portano l’impronta di una fondamentale influenza: il suprematismo russo. La cosiddetta «logica tettonica» dei suoi progetti, in cui falde scivolano l’una sull’altra per metamorfosi telluriche, viene dal vertiginoso disporsi sul piano delle forme geometriche di Malevich. 
L’altra influenza, dichiarata, è quella del decostruttivismo, e dunque l’abolizione, soprattutto nelle ultime opere, degli angoli di novanta gradi, dei profili rettilinei, sostituite da curve e ondosità, che, ci paiono improntate di una sensibilità femminile non rinvenibile nei colleghi maschi. Ci si potrebbe spingere anche a dire che è per questa essenza curvilinea che, all’interno delle architetture di Hadid, ci si sente così bene, così integrati nel nostro spazio e nel nostro tempo. L’eterno femminino che ci porta in alto, come recita il finale del Faust di Goethe.