Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  luglio 25 Martedì calendario

Il Fondo monetario taglia la crescita Usa e mette a rischio la riforma fiscale

Che fine ha fatto la turbo crescita promessa da Trump, che doveva cancellare la disoccupazione, rilanciare la classe media americana, e pagare i tagli alle tasse? È svanita, almeno secondo il Fondo Monetario Internazionale, che nella versione aggiornata del suo World Economic Outlook ha addirittura rivisto al ribasso le previsioni di crescita per gli Stati Uniti nel 2017 e 2018. Il presidente forse tweetterà che sono «fake news», e magari il Fondo si sbaglia. Trump però sa bene che se non produrrà risultati concreti su questo terreno, a partire dal lavoro, la riforma fiscale e la ricostruzione delle infrastrutture, rischierà davvero il consenso dei suoi elettori, poco interessati al «Russiagate» ma molto attenti a cosa succede nei loro portafogli.
L’analisi del Fondo è impietosa, anche perché in controtendenza globale. Nel 2017 e 2018 la crescita mondiale aumenterà al ritmo del 3,5 e 3,6%, nonostante gli Usa vadano invece indietro. Le stime del Pil americano sono state abbassate, dal 2,3 e 2,5% ad un piatto 2,1% per entrambi gli anni. Motivo: «La politica fiscale sarà meno espansiva di quanto presunto in precedenza, data l’incertezza riguardo i tempi e la natura dei cambi relativi alle tasse. Anche le aspettative dei mercati per lo stimolo fiscale si sono affievolite». Traduzione: i tagli alle tasse promessi non si vedono, e nessuno sa se arriveranno e quando. Stesso discorso per gli investimenti nelle infrastrutture, mentre la Fed sta alzando i tassi e si prepara ad alleggerire il portafoglio post QE. La Casa Bianca risponderà notando i regolamenti cancellati, il rilancio dell’energia fossile, il boom di Wall Street. Questi però sono soldi andati nelle tasche del solito 1% dei privilegiati, mentre anche la Carrier, l’azienda di condizionatori dell’Indiana che sotto la pressione di Trump aveva rinunciato a trasferire la produzione in Messico, ha ripreso a licenziare. Cosa succede?
La riforma fiscale è il tema su cui Trump punta per ottenere la prima vittoria, dopo il flop della sanità. Ci sono idee di massima a cui lavorano il ministro del Tesoro Mnuchin e il consigliere economico Cohn, ma non una proposta formalizzata. Il presidente, ad esempio, voleva portare l’aliquota per le aziende dal 35 al 15%, ma ora si è reso conto che non è possibile e sta ripiegando sul 25%. Il problema politico fondamentale è che i repubblicani più conservatori pretendono che la riforma sia «revenue neutral», ossia non incrementi il debito. Per fare questo sono necessari tagli alle spese, che inevitabilmente provocano contrasti.
Trump sperava di finanziare la riforma con i risparmi generati dalla cancellazione di Obamacare, che però non è ancora avvenuta, e con l’aumento degli introiti fiscali prodotti dall’accelerazione della crescita fra il 3 e il 4%, che ora l’Fmi esclude. A settembre, poi, il governo dovrà alzare il tetto del debito, e se non troverà un compromesso rischierà lo shut down delle attività federali. Per tutte queste ragioni la trattativa è complessa. Mnuchin spera ancora di presentare un progetto nei prossimi mesi, probabilmente dopo l’estate, per votarlo entro la fine dell’anno. Lo speaker della Camera Ryan dice che ci riuscirà, perché su questo tema i repubblicani sono uniti, ma prima andrebbe risolta la questione sanità. Ai problemi tecnici si aggiunge la rivalità fra Mnuchin e Cohn, candidato alla presidenza della Fed proprio per lanciare politiche fiscali più espansive.
Su questo sfondo, poi, ci sono le incertezze globali. Il calo del dollaro aiuta le esportazione, ma i trattati come Tpp, Tttip e Nafta sono stati abbandonati o congelati; l’ottimismo sul dialogo con la Cina riguardo al debito è svanito; e se i dazi sull’acciaio scatenassero una guerra commerciale, anche l’attuale ripresa anemica diventerebbe a rischio.