il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2017
Non è mai troppo tardi per trovare l’assassino
Yara Gambirasio e Bruno Caccia. Sono loro le vittime dei due omicidi su cui la magistratura si è espressa la scorsa settimana, emettendo due condanne all’ergastolo per gli imputati.
Il 18 luglio da Brescia è giunta la sentenza del processo di secondo grado per la morte della tredicenne di Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo. Al termine di una maratona in camera di consiglio, lunga oltre 15 ore, giudici togati e popolari hanno confermato la condanna al carcere a vita per Massimo Bossetti, il muratore accusato di aver seviziato e ucciso Yara nel 2010.
A Milano, invece, solo un giorno prima, il 17 luglio, la Corte d’Assise ha condannato all’ergastolo, dopo oltre trent’anni dal delitto, Rocco Schirripa, un ex panettiere oggi 64enne, ritenuto uno degli esecutori materiali dell’omicidio del procuratore capo di Torino Bruno Caccia, ucciso su disposizioni della ’ndrangheta il 26 giugno 1983.
Due cronache di delitti differenti per luoghi, tempi e protagonisti ma che, allo stesso modo, dimostrano la ricorrente difficoltà di individuare un colpevole certo di un omicidio. L’ergastolo in appello a Bossetti è solo l’ultimo atto di un processo che dal 2015 è proseguito in un crescendo di attenzione mediatica, quasi al pari del delitto di Avetrana.
Un processo che fin dal principio si è mosso sul filo dell’ammissibilità dell’unica vera prova regina dell’accusa, il Dna del muratore rinvenuto sugli slip della giovane atleta. Una prova che è più un atto di fede, in quanto esaurita e non più disponibile per nessuna controperizia. La vicenda è destinata a fare giurisprudenza, al limite dell’interpretazione del diritto di innocenza, in virtù dell’insindacabile verdetto della prova scientifica.
La condanna all’ergastolo per Schirripa, esecutore materiale dell’omicidio del magistrato Caccia, poi, stravolge quello che ormai era un classico cold case. Appena un anno fa, un errore procedurale della Procura aveva portato addirittura all’annullamento delle indagini e alla scarcerazione di Schirripa (la cui condanna si basa su alcune conversazioni tra ’ndranghetisti intercettate in carcere) lo scorso novembre. Otto mesi dopo è arrivata la sentenza che le figlie del magistrato attendevano da troppo tempo.
E sono le storie dai risvolti inaspettati come queste che mantengono alta l’attenzione sui crimini per cui ancora, a distanza di anni, si cerca un colpevole. E, soprattutto, danno speranza di soluzione a quelle storie su cui si è smesso di indagare. A volte sono drammi umani così al di fuori dai riflettori che finiamo per dimenticarli. Altre volte, invece, è la cronaca che trasforma certe tragedie in eventi mediatici.
Una vittima senza giustizia del passato è Daniele Gravili, morto a soli 3 anni, sulle rive della spiaggia di Torre Chianca in Salento. Sul corpo, abbandonato sulla sabbia in un pomeriggio di settembre, gli inquirenti hanno isolato tracce di liquido seminale. Proprio come Yara Gambirasio, Daniele Gravili era scomparso all’improvviso, nel percorso a trecento metri da casa che si snoda tra le villette a schiera.
Ma, a differenza di Yara, nonostante le meticolose indagini dell’epoca, senza un match nelle analisi del dna attraverso le tracce biologiche sul corpo, l’omicidio Gravili è rimasto impunito. Per trovare l’assassino di Daniele furono comparati 19 profili genetici con fatica e precisione, senza alcun risultato. Per Yara, invece, 20 anni più tardi sono stati più di 18 mila i dna analizzati per raggiungere l’identità di “Ignoto 1”.
Ed è stato ancora il Dna a ribaltare l’epilogo di un altro grande cold case italiano. A distanza di due decenni, l’omicidio della contessa Alberica Filo della Torre, detto anche delitto dell’Olgiata, ha un colpevole. Un mistero iniziato la mattina del 10 luglio del 1991 con il ritrovamento del corpo della contessa nella sua villa di Roma e durato fino al 2007, quando – su insistenza del vedovo Pietro Mattei – la procura ha disposto nuove analisi sui campioni di Dna, alla luce delle più avanzate tecniche di laboratorio. Nel 2011 il test genetico consegna alla giustizia un nome e un cognome: Manuel Winston, ex cameriere filppino della nobildonna, licenziato pochi giorni prima del delitto, ha soffocato la contessa. La verità sull’omicidio dell’Olgiata arriva tardi, ma è uno di quei casi che incoraggiano ad approfondire le indagini su altri gialli contemporanei.
Come l’omicidio di Lidia Macchi, ventenne massacrata con 29 coltellate in un bosco della provincia di Varese nel 1987. È un caso pioniere nella storia degli strumenti di indagine, perché è in occasione del delitto Macchi che per la prima volta si svolge l’analisi genetica dei profili dei Dna in un crimine in Italia, senza però portare a piste concrete.
Nel 2016, dopo anni di buio la svolta: una perizia calligrafica sul testo di una poesia, dal titolo “In morte di un’amica”, inviata alla famiglia Macchi nel giorno del funerale di Lidia, consente di aprire il processo, tuttora in corso, in cui è imputato Stefano Binda, ex compagno di liceo di Lidia, legato ad ambienti di Comunione e Liberazione. La lettera che lo incrimina, scritta a stampatello su foglio bianco, era stata per anni un enigma, una filastrocca di versi macabri, in cui Livia veniva definita come “un agnello sacrificale” destinato ad essere vittima di “un’orrenda cesura” e dello “strazio di carni.
Una vicenda tristemente simile è quella di Serena Mollicone, ventenne uccisa nel 2001 il cui corpo fu incaprettato e abbandonato nei boschi del Frusinate. Anche per Serena, come per Lidia, è arrivata una possibile svolta dopo 16 anni: tra false piste e occultamenti, suicidi sospetti e minacce di archiviazione la procura di Cassino ha deciso, alla fine del 2016, di continuare a indagare, riesumando il corpo di Serena.
La svolta dell’omicidio Mollicone, anche in questo caso, potrebbe dipendere da una perizia calligrafica. L’autenticità della firma di Serena proverebbe la presenza della ragazza all’interno della caserma dei carabinieri di Arce, ultimo posto dove potrebbe essere stata vista viva e dove probabilmente è stata uccisa. La perizia porta la firma autorevole di Cristina Cattaneo, stessa anatomopatologa che ha isolato il dna di “Ignoto 1” nel caso Gambirasio.
E per Serena come per Yara, si cerca l’assassino attraverso il suo dna. Scampata l’archiviazione, il gip ha accolto le richieste di supplemento di indagine con il supporto della parte civile, autorizzando la mappatura del Dna di 272 abitanti di Arce, una nuova autopsia e rilievi tecnici all’interno della caserma. Elementi che oggi fanno apparire la soluzione del delitto più vicina. Nella lista dei misteri c’è pure Simonetta Cesaroni, accoltellata in via Carlo Poma a Roma nel 1990, per la cui morte è stato a lungo imputato e poi assolto l’ex fidanzato Raniero Busco. Casi a cui si aggiungono quelli meno noti di Antonella Di Veroli, sigillata nel suo armadio nel 1994, forse perché troppo libertina e indipendente e Chiara Bariffi, 40 anni, scomparsa la sera del 30 novembre del 2002. Il suo corpo è stato recuperato solo nel 2005, all’interno dell’abitacolo della sua jeep che giaceva sul fondo del Lago di Como, su indicazioni di una sedicente sensitiva. Per il suo omicidio era stato detenuto per 588 giorni l’amico Sandro Vecchiarelli, poi dichiarato innocente, al quale è stato riconosciuto un danno per 170 mila euro.
Nel groviglio delle cronache giudiziarie capita che, talvolta, il diritto si capovolga e che gli imputati diventino vittime. Un caso da manuale è quello di Massimo Pisano, incarcerato nel 1993 e condannato all’ergastolo in perché ritenuto colpevole dell’assassinio della moglie Cinzia Bruno, in complicità con Silvana Agresta, la donna con cui aveva una relazione.
Dopo sette anni e mezzo di reclusione, sofferenze e battaglie legali, Pisano è stato dichiarato finalmente innocente dalla corte d’Appello di Perugia ed estraneo al progetto di morte dell’amante, riuscendo forse a scrollarsi di dosso – chissà – lo stigma del marito diabolico e spietato assassino.