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 2017  luglio 24 Lunedì calendario

«Fotografo il mondo per trovare me stesso». Intervista a Ferdinando Scianna

«Caro Manolo perché sei così frenetico, non potresti andare un poco più piano». E quello, di rimando: «A che serve la vita se uno non la ne abusa?» Manolo è Manuel Vázquez Montalbán e a porgli la domanda fu Ferdinando Scianna che in Visti&Scritti ricorda con rimpianto lo scrittore e amico spagnolo. Ma forse quella domanda il fotografo-scrittore siciliano la stava ponendo a se stesso dandosi identica risposta. A 74 anni appena compiuti (ad inizio luglio) vive tra Milano e il resto del mondo con la stessa intensità, gioia, curiosità, profondità di quando pubblicò l’ormai introvabile Feste religiose in Sicilia con testo di Leonardo Sciascia. Da allora a oggi una cinquantina di altri libri, cinque solo nell’ultimo anno e tre in arrivo. «Io faccio libri con fotografie, non di fotografie».
Fotografo o scrittore?
«La scrittura mi ha dato sicuramente soddisfazioni, ma poter fisicamente sostenere la fatica di viaggiare, camminare e fotografare mi dà ancora più felicità. L’ultimo lavoro, pochi mesi fa, sul Ghetto di Venezia, mi ha dato gioia proprio per essermi dimostrato capace anche fisicamente di catturare i momenti. Non sono ancora morto come fotografo. Comunque sono due atti diversi: nello scrivere tiri fuori da te le cose che si sono depositate in te e le fai diventare un’idea, un testo, un racconto. Invece la fotografia è improvvisa jouissance, come diceva Cartier-Bresson, sei nel mondo e trovi nel mondo quel che c’è dentro di te».
Istanti di luoghi è il titolo dell’ultimo suo libro edito da Contrasto e della mostra in corso a Milano alla Fondazione Forma Meravigli. Paesaggi fotografati in tutti e cinque i continenti, cercati o trovati?
«Ho sempre pensato che io faccio fotografie perché il mondo è lì, non che il mondo è lì perché io ne faccia fotografie. Anche questi luoghi non mi sembra di averli cercati, li ho incontrati vivendo, e poi ho scelto alcune delle tante fotografie che in questi incontri mi sono state regalate per comporre un libro nel quale riconoscermi».
Insomma, fotografia o scrittura, sono in ogni caso letteratura.
«Il fotografo è uno che crede significativo quel determinato istante, rappresentativo del mistero del quotidiano. Quel momento immobilizzato assume lo stesso carisma che può avere il sentimento sciolto in un poema. Naturalmente penso agli scatti di Cartier-Bresson che emozionano anche singolarmente e non ai reportage giornalistici. In questo senso la fotografia e la poesia hanno in comune l’assoluto che si può declinare solo a partire dal particolare».
Fotografia quindi più simile alla letteratura che alla pittura?
«Il fotografo è un interprete, non inventa. Cézanne poteva dipingere la mela, creandola. Io, se mangio la mela, è finita la foto. Io fotografo l’accadere della vita che per quanto ripetitivo è irripetibile. Sotto casa o in culo al mondo, con la foto do memoria e significato a un gesto».
Ma oggi la foto digitale ha banalizzato tutto, perfino rovinando col gesto della fotografia il momento che si sta vivendo. Pensiamo al cibo che lasciamo colpevolmente raffreddare per fare lo scatto del piatto.
«Ci sono in giro due miliardi di persone col telefonino in mano a scattare fotografie in modo compulsivo, dando un valore transeunte allo scatto, perché poi cosa ne facciamo delle foto è un’altra faccenda: cancellate, dimenticate, perse nel computer tra migliaia di scatti. Non sono mai state fatte tante fotografie come ora, ma non esistono più gli album di famiglia quando scegliere e conservare le foto era un gesto culturale per creare una specie di lari della propria famiglia».
Tutti fotografi, nessun fotografo.
«La fotografia è diventata un brodo indiscriminato. Le immagini sono un sottofondo, come per la musica. Non c’è più un supermercato, un ristorante, un locale dove non ci sia la musica di sottofondo, il che significa che quella musica non è lì perché tu l’ascolti, ma ti fa da tessuto connettivo per la tua vita che ha bisogno di una colonna sonora. Sei come un attore del cinema, che necessita della colonna sonora. Come la fotografia. Se non c’è non c’è il fatto. Il che è pure vero. Nel matrimonio deve esserci la fotografia altrimenti non ti sei sposato».
Primo italiano già negli anni Settanta ad essere ammesso nell’olimpo della Magnum, la più importante agenzia fotografica mondiale, lei ha coltivato tutti i generi della fotografia...
«Fermo, la blocco con una battuta di Totò: gli unici generi che conosco sono i mariti delle figlie. Ripeto: io sono uno che guarda quel che il mondo gli offre».
E che soffre guardando il mondo, come emerge dalle immagini di Dolore vissuto, appena pubblicato dal raffinato editore siciliano Le Farfalle. Scatti fatti in giro per il mondo e che talvolta sono duri come un pugno allo stomaco, come quando vede a Dacca in Bangladesh cadere per strada le persone mentre camminano. Chiede e la risposta è tremenda nella sua semplicità: Non è niente, ha fame. La domanda non è originale, ma ha senso fotografare quel dolore?
«A Makallè, in Eritrea, in un campo profughi notai gesti incomprensibili degli assistenti. C’era una fila di bambini che sembravano usciti da Auschwitz. Gli infermieri li pesavano e misuravano. Mentre fotografavo mi domandai a che cosa potesse servire un’operazione del genere mentre la gente moriva come le mosche. Chiesi perché. Mi spiegarono che in questo modo selezionavano quelli che avevano bisogno di un intervento urgente, tralasciando gli altri per i quali era troppo tardi. Smisi di pigiare sull’otturatore. Che senso ha fare foto in una situazione del genere? mi chiesi. La brusca risposta arrivò da un medico impegnato in prima linea che non aveva tempo da perdere con un fotografo in crisi: Fai il fotografo? Non è questo quello che volevi fare? Fallo bene allora. Cerca di mettere nelle tue foto la tua angoscia e la tua pietà. Non pretendere di cambiare il mondo con la tua fragilità. Non fuggire».