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 2017  luglio 24 Lunedì calendario

Tour, il quarto trionfo di Froome. «Così ho scoperto il suo talento»

Claudio Corti, 62 anni, è stato un ottimo corridore, campione del mondo su strada fra i dilettanti nel 1977 e poi vicecampione iridato fra i professionisti nel 1984. Ma non meno brillante è stata la sua carriera di dirigente e direttore sportivo – ha guidato tra gli altri dall’ammiraglia campioni come Bugno, Cipollini, Simoni e Cunego -, nel corso della quale ha scoperto numerosi talenti, fra i quali proprio Chris Froome, ieri vincitore del suo quarto Tour de France negli ultimi cinque anni.
Corti, è anche merito suo se Froome è diventato così forte?
«Ma no, però fui io a portarlo in Europa, anzi proprio in Italia».
Sono già passati 10 anni...
«Era il 2007 e la mia Barloworld correva in Sudafrica dove aveva sede lo sponsor. E al Giro del Capo vidi in gara Froome».
E subito se ne innamorò?
«Ne rimasi stupito. Mi dissero che era nato a Nairobi, in Kenya, da genitori britannici e che poi a 15 anni si era trasferito a Johannesburg e aveva iniziato a correre, quindi abbastanza tardi».
Che cosa allora la convinse?
«Un mio corridore, Cardenas, si impose nella prima tappa e Froome si piazzò fra i migliori dimostrando di andare bene in salita. Longilineo, con le gambe lunghe, non era ancora così magro ma mi piacque. Correva nel team Konica Minolta e gli chiesi se voleva trasferirsi con me in Italia».
E lui accettò subito?
«Sì, forse anche perché viveva in Sudafrica da solo, i suoi genitori Clive e Jane erano separati e li vedeva poco. Così venne ad abitare a Chiari, vicino a me a Brescia, e fece due stagioni con noi della Barloworld».
Ma com’era il primo Froome?
«Un po’ acerbo, inesperto, con problemi a stare in gruppo e tanta paura nelle discese. Ma in salita spingeva già forte».
Che cosa la stupì?
«Era molto determinato, più maturo di altri corridori stranieri venuti in Italia come lui. E intelligente, imparò in fretta l’italiano. Amava la bici, aveva cominciato con la mountain bike, poi passò alla strada dopo aver visto in televisione il Tour».
Lei intravide subito il campione?
«Non pensavo che avrebbe raggiunto livelli simili, ma dissi ad alcuni giornalisti che quel ragazzo un giorno sarebbe arrivato nei primi cinque al Tour». 
E com’era Froome nella vita privata, lontano dal ciclismo?
«Preferì vivere da solo e non con altri miei giovani corridori stranieri, forse anche perché aveva una fidanzata a Milano e si sentiva più libero. Ogni tanto mi chiedeva la mia 126 per andarla a trovare e io gliela davo perché mi fidavo di lui. Era meticoloso, ordinato, amava già la tecnologia, si allenava tantissimo e sapeva quello che voleva».
Faceva già vita da fachiro?
«No, anzi. A volte si mangiava anche qualche panino farcito all’inglese, ma aveva una sua dieta particolare. Sul balcone di casa coltivava una pianta e poi ne mangiava i semi appena raccolti. Non ho mai capito che pianta fosse».
Lei lo buttò al Tour nel 2008 e al Giro l’anno dopo. Come andò?
«Bene. Al Tour prese solo poco più di 2’ da Cancellara in una crono molto lunga e al Giro tentò la fuga solitaria sulla dura salita di San Luca a Bologna, cedendo solo alla fine».
Pedalava già a frullatore?
«Non come oggi, ma lo stile era quello. Gran ritmo, anche se meno potenza. E non mollava mai. Dopo una Coppa Agostoni tornò a casa in bici per un altro centinaio di km con zaino in spalla».  
Dai 30 mila euro lordi all’anno di allora ai 5 milioni di oggi: ne ha fatta di strada Froome...
«Un po’ ha stupito anche me, ma le doti erano evidenti».
Non lo trova troppo computer?
«Forse anni fa, ora meno».
A molti è antipatico. A lei?
«A me è molto simpatico».
È già fra i big di sempre?
«Certo, uno che vince 4 Tour...».
Ma ha vinto poco altro...
«E mi dispiace, perché una Liegi può conquistarla di sicuro».
E la doppietta Giro-Tour?
«Ormai è un’impresa, ma Chris potrebbe almeno provarci. Non credo però che lo farà».
Chi potrebbe essere il rivale di Froome nel Tour 2018?
«Magari Dumoulin. Aru? Per ora soffre la terza settimana».
Crede che Froome voglia arrivare a 5 Tour o magari a 7?
«A 5 va bene, ma 7 no, altrimenti poi la gente pensa male».