la Repubblica, 24 luglio 2017
I tuffi dal ponte di Venezia e le città d’arte tentate dal turismo a porte chiuse
Un romanzo qualsiasi, uno scrittore qualsiasi, la scena di alcuni ragazzi che all’alba si tuffano dal ponte di Calatrava a Venezia. Ottima per quando ci faranno un film, metaforica ed evocativa. Invece succede davvero, è successo ieri mattina (i 6 tuffatori, belgi, sono stati identificati e saranno destinatari di «punizioni esemplari»). E allora ci sbrighiamo a gridare che è uno schifo, non c’è più rispetto di niente, non più limiti alla stupidità e all’orrore del turismo maleducato. Fiumi d’indignazione, la stessa che travolge chi fa il bagno nella fontana di Trevi. Anche se la scena di Mastroianni e Anita Ekberg che fanno il bagno in quella fontana ci sembra magnifica e piena di poesia. E lo è, infatti. Come il finale di Roma di Fellini, col circo di moto rombanti che attraversa la città, gira intorno a piazza Navona, al Colosseo… Chi lo sopporterebbe se accadesse davvero?
Ci sono regole che l’immaginazione ha il diritto e il dovere di ignorare. Ci sono pericoli che riguardano i corpi delle persone, il bios, dai quali sono immuni i personaggi di cui ci innamoriamo nei film o nei libri. Senza dubbio i nostri comportamenti reali devono tener conto di chi ci sta intorno, dei danni che possiamo fare, e persino della nostra salute. Compito della vita è produrre sopravvivenza, dell’arte mettere poesia nel mondo. D’accordo.
Ma le nostre città cosa offrono a quelle masse di turisti maleducati e inconsapevoli (senza i quali, detto incidentalmente, il Paese affonderebbe)? File per vedere monumenti che in foto si apprezzerebbero di più, cibo di qualità repellente a prezzi da codice penale, ordalìe di bevute coatte capaci di stendere un bisonte, un generale disprezzo e mezzi di trasporto di leggendaria inefficacia. Cose che non somigliano neanche lontanamente alla bellezza che s’immagina di venire a cercare in Italia. Qual è la soluzione?
Potremmo mettere il numero chiuso alle città, alzare ancora i prezzi per provocare una naturale selezione, vietare di bere dalle 9 di mattina, chiudere i ponti dai quali ci si potrebbe buttare. Possiamo restringere le possibilità, come in quel racconto di Cortazar in cui gli abitanti di una casa finiscono a dormire in un angolo, abbandonando stanza dopo stanza. Possiamo creare per i turisti corridoi esperienziali, percorrendo i quali, in rigorosa fila indiana, potranno fare solo quello che noi giudichiamo giusto e non pericoloso: la foto col gladiatore, il gelato da 20 euro, l’acquisto della gondola in madreperla, del grembiule con la foto del David coi genitali di marmo in corrispondenza di quelli di chi li indossa. Se vietiamo tutto, come tendono a fare le amministrazioni incapaci, eviteremo qualsiasi rischio. Potremmo addirittura chiedere alle odiate masse di turisti di mandarci direttamente i soldi che avrebbero speso qui e spedire loro quelle gondole e quei grembiuli, diminuendo l’impatto ambientale.
Oppure potremmo finalmente riflettere su questa follia e trovare soluzioni, immaginare, avere pensieri di raggio un po’ più lungo. Rischiare. Smettere di pensare in termini d’invasione, quando persone diverse da noi vengono nel nostro Paese, per qualsiasi ragione. Creare quella dinamica tra realtà e immaginazione, tra libertà e rispetto, tra le nostre idiosincrasie e la voglia di vita di chi è arrivato fino a Firenze, Venezia, Roma per amore e fame di esperienza. Fino a trovare un punto nel quale le nostre città siano in salvo ma non mummificate e in balìa dei predoni del commercio demente. Come? Magari andando a vedere come fanno gli altri, fuori dall’Italia. Studiando, mi si passi il termine.