Il Messaggero, 22 luglio 2017
La contessa, l’amante e quel colpo al cuore
Villa D’Este è un lussuoso albergo di Cernobbio, noto per ospitare i più prestigiosi meeting di economia, politica e finanza nell’incantevole cornice del lago di Como. Pochi sanno, tuttavia, che settanta anni fa fu teatro di uno dei delitti che più affascinarono l’opinione pubblica, soprattutto femminile, per la personalità della sua autrice e la sua incontenibile emotività. La protagonista era la contessa Pia Bellentani. La vittima era Carlo Sacchi, l’amante infedele.
Pia Caroselli era nata a Sulmona nel 1916. Suo padre era di famiglia modesta, ma si era arricchito nel commercio. Come le Père Goriot, aveva puntato sulla figlia tutte le carte per una rimonta sociale, e alla fine la fanciulla, graziosa ma non bellissima, era stata maritata al conte Bellentani, di nobiltà recente (era un industriale di insaccati) ma di dovizioso patrimonio e indiscussa onorabilità. La circostanza che avesse il doppio degli anni della sposa era stata ritenuta trascurabile.
La ragazza era cresciuta con una buona educazione, ma aveva un carattere romantico e sognante, tendente alla solitudine e all’introspezione malinconica: pare si nutrisse dei romanzi di Liala e che talvolta pensasse, rabbrividendo di gioia, al suicidio. Non erano sintomi propriamente benauguranti, ma nemmeno tanto straordinari. Il prof. Saporito, psichiatra nel suo processo, impiegherà 650 pagine per definirla completamente inferma di mente. Ma fino a quel momento nessuno se n’era accorto.
Carlo Sacchi, la vittima, aveva in comune con la contessa solo il conto in banca e le frequentazioni altolocate. Per il resto era un donnaiolo impenitente, con pretese letterarie di stile incerto, prossimo a un ermetismo coprofilo. Per lui le donne erano carne se non da macello certo da rapido consumo. Tradiva equamente la moglie e le amanti, e, quel che è peggio, non ne faceva mistero. L’incontro tra un rozzo Don Giovanni e una Gretchen estatica era appiccicare il detonatore alla dinamite. Ed infatti la bomba scoppiò a villa D’Este,la sera del 18 settembre 1948, durante un’elegante sfilata di moda.
Pia Bellentani era ormai l’amante di Sacchi da quasi otto anni. Dopo i primi usuali fuochi d’artifizio, le polveri dell’uomo si erano bagnate, e da tempo le aveva sostituite con esplosivi più potenti: attricette, nobildonne, amiche di famiglia. Il gentiluomo commentava queste storie con poesiole bislacche e volgari, che riempirono di omissis gli atti giudiziari, finché furono lette integralmente, durante il processo, a riprova della sua provocatoria turpitudine. A parte questa aspirazione strampalata, Sacchi era un cinico detestabile e maleducato, che si divertiva a umiliare le sue pregresse conquiste anche davanti ai mariti. Con la contessa usava spesso il termine terrona,condito di attributi più disgustosi. La sera del delitto si esibì con questa perfidia plebea davanti alla propria moglie, all’amante in carica, a Pia e al conte Bellentani: l’unico, evidentemente, a sorridere con sovrana indulgenza a tanta ciarlataneria.
ERMELLINO
La Contessa, ad un certo punto, si alzò da tavola, andò a recuperare la pistola che il marito aveva depositato in guardaroba, la nascose sotto la stola di ermellino, si accostò al Sacchi e sparò un colpo che andò dritto al cuore. Poi si portò – pare – la canna alla tempia, ma l’arma si inceppò. Fu subito arrestata e condotta in guardina in abito da sera. E qui cominciò il processo che avrebbe appassionato per alcuni anni gli italiani e soprattutto le italiane.
L’omicidio, in sé, aveva poco di misterioso. Era stato commesso sotto gli occhi di tutti, e la sua dinamica era di facile ricostruzione: quella l’arma, quello il proiettile, quello il morto. Ma nel processo penale l’elemento oggettivo è solo un aspetto del puzzle. Bisogna decidere se l’atto è stato commesso intenzionalmente, e se l’evento era davvero voluto. Inoltre, e qui gli avvocati si scatenarono, occorreva stabilire se l’imputata fosse sana di mente, oppure del tutto incapace, oppure metà e metà. Già, perché il nostro codice penale prevede che una persona possa essere mezza matta e mezza no: in tal caso, se riconosciuta responsabile, sconta parte della pena in galera e parte in manicomio.
La consulenza psichiatrica fu affidata al prof Saporito, che godeva fama indiscussa di esperienza clinica e dottrina accademica. Dopo diciotto mesi il luminare depositò, come abbiamo detto, un elaborato di 650 pagine, dove aveva concentrato l’intera tavolozza della sua vasta erudizione. Dino Buzzati, divertito più che scandalizzato, strapazzò questo poema dove figuravano vocaboli come ipomania, automorfofobia, labe, poichilocitosi, cinofilia ecc.ecc fino all’indice ponderale che il grande scrittore tradusse con il più accessibile sinonimo di peso. Alla fine, Saporito concluse che la donna era totalmente insana. La Corte d’Assise, più prudente, affidò una perizia a un medico diverso, che concluse in modo difforme: Pia Caroselli era incapace, ma solo a metà.
CATTEDRATICI
La parola passò quindi agli avvocati, quasi tutti cattedratici universitari. Fu una disquisizione di alto contenuto giuridico, ma il pubblico voleva sentir parlare di gelosia, sesso e adulterio, più che di dolo eventuale, premeditazione o colpa con previsione. In parte fu accontentato. L’ultimo difensore, essendo stati brillantemente esauriti dai precedenti colleghi tutti gli aspetti tecnici e processuali, partì con il vento in poppa della retorica sentimentale. Spaziò da Gozzano ad Amerigo Vespucci, coinvolgendo Mirabeau, Beaumarchais, Carducci, Moliere, Shakespeare, Tolstoi, Sofocle, Euripide, Jack London, Pascoli, Diderot, Scarron e naturalmente Flaubert. Sazio di tanta erudizione ritornò a Sacchi citando scampoli delle sue famigerate poesie: «Tu paghi le donne belle e brutte con differente moneta/ e la porca la paghi bucandoci il culo». Rincuorato dal silenzio composto dei giudici, l’indomito difensore concluse con una poesia del defunto dedicata alla maternità «Tutta la figliolanza / che vien fuori da una panza /come fossero stronzi».
La Corte, esausta, decise secondo consuetudine, cioè in modo equilibrato. Pia fu riconosciuta seminferma di mente, e condannata a dieci anni di reclusione e tre di manicomio criminale. In appello gli anni furono ridotti a sette. La contessa li scontò con dignità e rassegnazione religiosa. Poco prima della scadenza, fu graziata dal Presidente della Repubblica. Morì nel 1980, devolvendo ai familiari di Sacchi i diritti d’autore delle sue memorie.