la Repubblica, 22 luglio 2017
I cavalieri, le armi, gli errori. Storia di guerre e vanità militari
La guerra è questione di carattere. E di caratteri tratta l’ultimo libro di Stefano Malatesta, La vanità della cavalleria e altre storie di guerra (Neri Pozza Editore). Dall’elogio del cavallo alla disperata ricerca di un eroe italiano, queste pagine appartengono al raro genere dei libri che vorresti non finissero. Romanzi, di norma. Le decine di caratteri che Malatesta dipinge attingendo alla passione e all’ironia – raccontando di battaglie antiche e moderne, da Teutoburgo a Gallipoli, da Waterloo a Caporetto e El Alamein – sono perle di una collana che si compone infine in racconto unitario. Protagonisti: generali e ammiragli geniali o vanagloriosi, soldati e condottieri, eroi sconosciuti o fin troppo noti, politici manipolatori e grandi strateghi, raccontati come idealtipi di un genere, il militare, che al netto della retorica svela di ciascuno il carattere profondo.
Su tutti, cavalli e cavalieri. Dove i primi nobilitano i secondi. Altro che equino stupido e vile. Il cavallo ritratto da Malatesta è tutto il contrario. È sveglio e volitivo: «Chiunque abbia avuto familiarità con un cavallo si sarà accorto che non sopporta le pacche ai posteriori, quelle date dai cretini che vogliono dimostrare una familiarità che non hanno». Il loro stesso addomesticamento è scelto: «Stanchi dei pericoli che correvano nella vita libera della savana, hanno preferito scambiare la libertà contro la sicurezza e la protezione».
Non sempre i cavalieri, o chi li comanda, sono altrettanto intelligenti. Malatesta lo ricorda attraverso alcune delle più cinematografiche cariche di cavalleria, quale l’attacco frontale della Light Brigade britannica a una batteria di cannoni russi, nell’ottobre del 1854, a Balaklava, in Crimea, da cui il film La carica dei Seicento.
O l’assalto della cavalleria napoleonica a Waterloo, quando l’Imperatore pareva certo della vittoria, che si infrange sui quadrati delle giubbe rosse di Wellington.
Malatesta non subisce il fascino della guerra. Quantomeno non di quella moderna, successiva alle eleganti manovre di corte – animate dallo spirito aristocratico della cavalleria d’un tempo – che ancora nel Settecento risolvevano i conflitti dinastici. Da quando Napoleone stabilì che «la battaglia si vince durante la ritirata», ovvero facendo strage del nemico in fuga perché non possa un giorno rinvenire minaccioso, è sorto il mito della guerra per finire tutte le guerre.
«Più passa il tempo più ci rendiamo conto che la Prima guerra mondiale è all’origine di tutti i nostri mali», stabilisce Malatesta, nella sezione sulla Grande Guerra, o meglio sui caratteri dei suoi protagonisti. Dal primo Churchill, più fortunato che abile, all’eroico Mustafa Kemal (Atatürk) di Gallipoli, dal Rommel di Caporetto al supponente Douglas Haig, che mandò i fanti britannici al massacro della Somme. Di luce speciale brilla la stella di Paul von Lettow-Vorbeck, ufficiale guglielmino, forse il massimo guerrigliero d’ogni tempo, capace di difendere il Tanganica tedesco durante tutta la Grande Guerra. Anche perché a differenza degli inglesi trattava i suoi ascari da camerati. Qualcosa di simile, su altra scala, seppe compiere Amedeo Guillet, nella disperata difesa del nostro impero africano, nel 1941-42. Ultimo dei grandi cavalieri.
La cavalcata di Malatesta si conclude con l’amaro ricordo di una conversazione con Hugo Pratt, alla ricerca delle ragioni che impedivano al fumetto nostrano di inventare un eroe come lo Steve Canyon di Milton Caniff. Qualcuno aveva suggerito a Pratt di prendere a modello il duca d’Aosta oppure Umberto di Savoia. Il primo lo scartò quando seppe che l’eroe dell’Amba Alagi voleva la pace con gli inglesi per farsi nominare re al posto di Vittorio Emanuele. Quanto al principe ereditario, avrebbe dovuto prendere a calci il re vigliacco e i generali felloni per unirsi alla Resistenza. A quel punto, secondo Pratt, «sarebbe diventato così popolare da essere eletto re d’Italia». Ragionamento d’artista. Sul quale Malatesta conclude: «Tuttavia la storia rispecchia non il desiderio degli uomini ma degli dei invidiosi degli uomini e risulta sempre diversa da come la vogliamo». Ringraziamo gli dei di averci risparmiato altri decenni di una delle dinastie più scadenti d’Europa.