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 2017  luglio 22 Sabato calendario

Nella capitale senza anticorpi finisce sotto inchiesta il capo dell’anticorruzione

ROMA Il numero crudo è enorme: un dirigente su tre del Campidoglio è sotto inchiesta. Il numero argomentato racconta che nei fascicoli personali c’è di tutto: dalla buca stradale, all’assenteismo (il 23%), dall’abuso fino, naturalmente, alla mazzetta.
Perché quella dei dirigenti capitolini, 190 su un esercito di 23 mila dipendenti, sotto organico di una cinquantina di poltrone, è sì una macchina amministrativa con molte eccellenze ma anche, come racconta quel che resta – e non è poco – di Mafia Capitale, un gruppo famelico capace di bruciare milioni in affitti ad amici, appalti a soci occulti, acquisti da compari “accreditati”.
L’ultima inchiesta annovera la stessa responsabile dell’Anticorruzione del Campidoglio. La procura le contesta l’affidamento diretto e senza gara della mensa aziendale dell’Atac, l’azienda trasporti romana, funestata da un tasso di inefficienza unico che viaggia sul debito monstre di oltre un miliardo.
Così Cristiana Palazzesi, questo il nome della dirigente che forte di attestati di stima bipartisan era stata messa a guardia della legalità negli uffici, si è ritrovata da vigilante a vigilata. Finirà in un’area di parcheggio in attesa che la giustizia stabilisca la natura e la consistenza di quell’abuso d’ufficio e della violazione del codice degli appalti che la riguarda come ex componente del cda di Atac.
La storia della dirigente, analoga a quella di Gabriella Acerbi, la vice capo di gabinetto di Virginia Raggi, indagata per motivi simili da parte della Corte dei conti, è l’ennesimo testacoda comunicativo di un’amministrazione che aveva fatto filtrare il numero dei superburocrati sotto schiaffo giudiziario proprio alla vigilia della sentenza di Roma che ha condannato 6 dei 7 funzionari a giudizio.
Un tentativo di consolidare la tesi del malaffare ereditato. Rilanciata nel giorno in cui veniva resa nota la firma di un protocollo con l’Anac di Raffaele Cantone: un’intesa per sottoporre al vaglio preventivo per 12 mesi le gare d’appalto di una certa rilevanza. Come dire: meglio non fidarsi e incassare un bollo che torna utile in caso di inchieste. Che abbondano.
Abituati a navigare sotto amministrazioni di segno opposto, anche fuori dal contesto di Mafia Capitale, i dirigenti finiti nei guai alimentano un pallottoliere in continuo movimento: c’è la truffa da 2 milioni sui pass della Ztl, i 100 milioni sperperati in Affittopoli con 10 indagati dalla Corte dei Conti, le tangenti per i campi Rom che ne ha travolti 15. Quella con la burocrazia capitolina, del resto, per Virginia Raggi è una guerra combattuta cavalcando l’onda dell’inchiesta su Carminati, Buzzi, Gramazio e Luca Odevaine e il comitato d’affari trasversale, cui ha fatto da contraltare l’accusa di criminalizzazioni indiscriminate.
Riguarda soprattutto il caso di Raffaele Marra, il Rasputin capitolino che Raggi avrebbe voluto a capo di tutto e del quale si fidava ciecamente finito in una storia di corruzione che risale agli anni in cui era alla guida del Patrimonio. Sconti su case di lusso a prezzi stracciati elargite da Sergio Scarpellini, l’immobiliarista abituato ad ungere anche l’ultimo ingranaggio della macchina delle autorizzazioni comunali pur di ottenere l’ok su contratti di affitto milionari.
Pur con il fardello pesante di sospetti alimentati dall’aver avviato la propria ascesa regnando Gianni Alemanno e rimanendo saldamente in sella anche dopo, Marra – «il virus che ha infettato il movimento», secondo Roberta Lombardi – si è ritrovato ad avere in mano le chiavi per un riassetto della burocrazia capitolina.
Da capo del Personale dell’era Raggi ha allestito la macrostruttura cooptando il fratello Renato, da ufficiale dei vigili a capo del dipartimento Turismo. Una promozione che è costata a Raggi l’accusa di falso per essersi intestata quella scelta insieme con l’abuso, per la decisione di chiamare al suo fianco come capo della segreteria politica Salvatore Romeo, catapultato dal ruolo di impiegato a quello di superconsulente con stipendio triplicato.
Per gli oppositori di Raggi più che un doppio passo falso è la prova di una certa irredimibilità nella consuetudine di spartire incarichi e elargire prebende anche da parte di chi professa il nuovo. Ma anche dell’attitudine a infilare le porte girevoli della politica da parte di una lobby tanto scaltra quanto vorace seduta su una cassa da 5,3 miliardi.