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 2017  luglio 22 Sabato calendario

Chi è Sean Spicer, burocrate incline alle gaffe

WASHINGTON Le fortune di Sean Spicer erano evaporate da almeno due mesi. Donald Trump lo aveva polverizzato, con un tweet naturalmente, il 16 maggio scorso: «Sono un presidente molto attivo che fa molte cose: non è possibile per i miei sostituti rappresentarmi in modo perfettamente accurato».
Il portavoce della Casa Bianca ieri si è fatto intervistare dalle grandi catene tv per recitare l’ultima parte, perché va salvata non tanto l’apparenza, quanto la possibilità di un ritorno o di un riposizionamento nella cittadella della politica: «Il presidente mi aveva chiesto di restare, ma vuole gente nuova. È giusto ripartire, facendo tabula rasa». Spicer ha 45 anni, è nato nel Rhode Island, ha studiato nel Connecticut College e poi nel Naval War College. Si è congedato con il grado di Comandante. Alla Casa Bianca, però, ha vissuto sei mesi da subordinato senza appello, in balia totale degli umori, gli scatti d’ira provenienti dallo Studio Ovale. Trump lo ha accolto con scetticismo: Spicer era il capo della comunicazione nel comitato nazionale del partito repubblicano. Sostanzialmente un burocrate, da trent’anni un ruminatore di tartine e relazioni nei cocktail organizzati dai lobbisti di Washington. È stato il suo antico boss, Reince Priebus, esponente dell’establishment repubblicano diventato capo staff della Casa Bianca, a convincere Trump.
Spicer ha cominciato baldanzoso, maramaldeggiando con i giornalisti. È stato ripagato da un astio costante; ridicolizzato dall’imitazione di Melissa McCarthy, nello show televisivo «Saturday Night Live», sulla Nbc, il più seguito della stagione.
Senza dubbio fare il portavoce di Donald Trump è il mestiere più difficile del mondo. Per Spicer è dura fin dal primo giorno. Nonostante le foto, il presidente sosteneva che ci fosse una folla mai vista all’inaugurazione del 20 gennaio. E così via.
Poi Sean ci ha messo del suo. La gaffe del 12 aprile è stata enorme. Sono i giorni dell’attacco all’aeroporto siriano. Uno dei rari momenti in cui larga parte dell’opinione pubblica condivide l’operato del neo presidente. Il portavoce ha finalmente una carta buona da giocare in diretta tv. La spreca in modo indecoroso: «I gas di Bashar Assad? Neanche Hitler usò armi chimiche contro la sua popolazione». Attimi di incredulo imbarazzo nella sala stampa. Spicer arranca: «Sì li ha usati nei “centri” dell’Olocausto, ma Assad li ha scaricati su innocenti nel centro delle città. Apprezzo il chiarimento, non era quello che intendevo dire».
Protestarono tutti. Il centro Anna Frank di New York chiese il suo licenziamento immediato. Spicer restò al suo posto. Questione di settimane. La «nuvola del Russiagate sulla Casa Bianca», parole di Trump, diventava sempre più nera. Umanamente impossibile seguire il pendolo furibondo del presidente. Il 9 maggio The Donald licenzia il direttore dell’Fbi, James Comey. Per giorni la consegna è negare qualsiasi collegamento con le indagini in corso sui rapporti tra Mosca e il clan di Trump. Spicer segue alla lettera le istruzioni, «garantendo», «assicurando» che «la Russia non c’entrava nulla con le dimissioni di Comey». Finché una mattina Trump twitta: «Quando ho licenziato Comey pensavo alla Russia».
Negli ultimi due mesi Spicer è stato a poco a poco esautorato. I briefing solo raramente venivano trasmessi in tv. Al suo posto sempre più spesso compariva la vice Sarah Huckabee Sanders, ieri promossa alla carica di Press Secretary. Per l’occasione Sarah si è congedata pubblicamente con il suo ex superiore in questo modo: «Avrà sicuramente grandi opportunità, visto quanto è alto il suo share in tv».