Pagina99, 14 luglio 2017
Vuoi sapere il tuo futuro?
In principio fu il gene lrrk2, di stanza nel dodicesimo cromosoma. Una sua mutazione genetica è associata al morbo di Parkinson con una probabilità statistica tra il 30 e il 75 per cento. Tra i milioni di persone al mondo che la nascondono nelle loro cellule c’è anche Sergey Brin, cofondatore di Google con un patrimonio stimato a 42,4 miliardi di dollari. Poteva limitarsi a finanziare la ricerca su questa malattia degenerativa come hanno fatto molti altri filantropi, invece no. Ha cambiato le carte in tavola con il metodo Google: costruire immensi database per sfruttarli con algoritmi predittivi. «La ricerca medica procede a passo di lumaca se paragonata alla velocità a cui ci ha abituato internet», aveva dichiarato all’epoca a Wired. «Dovremmo cercare ovunque e schedare molte informazioni. Se riconosciamo un disegno, potrebbe portarci a qualche conclusione».
Dall’epistemologia alla “googlogia”, dunque. Capitale economico e infrastrutture informatiche, se c’è dietro Brin, si danno per scontati. Così nel 2006 Anne Wojcicki, quella che sarebbe stata (per un periodo) sua moglie, aprì 23andMe, un’azienda che si occupa di genetica e offre test del dna a prezzi popolari. Insieme a lei c’erano Linda Avey e Paul Cusenza. E i capitali di Yuri Milner, il magnate russo che ha investito nei nomi più noti dell’economia digitale globale. Neanche a dirlo Google era tra i principali investitori. Sequenziare il Dna costava sempre meno e apriva la possibilità di costruire banche dati anche alivello privato.
Negli anni seguenti, il prezzo delle analisi è sceso due volte più velocemente di quello dei personal computer, le aziende che offrono test del Dna per cifre inferiori ai duecento euro si sono moltiplicate e il mercato è esploso. Nel 2015 valeva 70 milioni di dollari e si stima che nel 2022 varrà quasi cinque volte tanto: 340 milioni.
Oggi basta inviare un campione di saliva a Mountain View, pagare poco meno di duecento euro e aspettare qualche giorno. Con un patrimonio di oltre due milioni di Dna sequenziati, 23andMe è attualmente tra i più grandi archivi di informazioni genetiche a scopo scientifico del mondo occidentale. L’80 per cento dei suoi clienti ha scelto di lasciare le informazioni a disposizione dell’azienda in forma anonima. L’idea è quella di velocizzare la ricerca.
Il social network del Dna
La struttura del sito a cui accede chi fa il test è esattamente quella di un social network. Si può scegliere se mantenere il profilo anonimo e quali informazioni condividere e con chi. Ogni volta che scoprono che nel mondo qualcuno con un grado di parentela più o meno lontana ha fatto il tuo stesso test, una notifica ti avvisa. Così si può scegliere se accettarlo tra gli ‘‘amici” oppure no.
«Ho scelto di fare il test nel 2012», racconta a pagina99 Nicola Barban, ricercatore del Dipartimento di sociologia deH’università di Oxford: «Ero spinto dalla curiosità sul mio patrimonio genetico e dal voler sperimentare una nuova tecnologia che nel giro di pochi anni diventerà più comune di quanto oggi riusciamo a immaginare». Specializzato in sociogenetica, Barban è rimasto stupito dalla semplicità e dalla capacità divulgativa cón cui 23andMe gli ha presentato i dati relativi al suo Dna.
«Per chi vuole approcciarsi alla genetica, è perfetto. Ogni informazione è seguita da spiegazioni e infografiche che aiutano anche l’utente meno esperto a comprendere i dati che gli vengono presentati».
Il sito divide le informazioni in due sezioni: quella genealogica e quella relativa alla salute. Nella prima scopriamo da dove veniamo, fino a rintracciare la percentuale di uomo di Neanderthal che i nostri geni ancora conservano. Nella seconda invece si affrontano argomenti più sensibili come l’eventuale predisposizione a determinate malattie o la maggiore o minore tolleranza ad alimenti o farmaci.
Primo: essere consapevoli
Ovviamente, bisogna sempre tenere a mente che si tratta di probabilità statistica. Addirittura, per i dati più sensibili – per esempio la predisposizione all’Alzheimer, al morbo di Parkinson o al tumore al seno o alla prostata – è richiesto di immettere una seconda volta la password. A 23andMe, vogliono assicurarsi della consapevolezza dell’utente.
«Potreste apprendere cose su voi stessi che non vi sareste mai aspettati e che non sarete in grado di controllare o cambiare», si legge nell’informativa del sito: «Per esempio potreste scoprire che vostro padre non lo è geneticamente o che chi è portatore del vostro genotipo ha in media più possibilità di sviluppare alcune malattie. I risultati che otterrete potrebbero avere effetti sociali, legali ed economici». E in un altro punto: «Informazioni genetiche poco o per niente importanti oggi, potrebbero avere grande peso nel futuro. Nasconderle a un’eventuale compagnia assicurativa, potrebbe essere considerata una frode».
L’eccezione italiana
«Accedere a determinate informazioni sulla propria salute spaventa sempre», commenta un trentenne che ha fatto da poco il test ma preferisce rimanere anonimo: «Se sono qui a raccontarlo con disinvoltura è perché nel mio caso non sono stati riscontrati tratti che lasciano presupporre una predisposizione a malattie incurabili o degenerative». Ci racconta che anche lui ha fatto il test in Gran Bretagna, ma che quando ha cercato di aprire i risultati dall’Italia, paese del quale è originario, non ha trovato traccia di tutti i dati contenuti nella sezione salute.
«L’ho vissuto come una sorta di violenza, al di là della legislazione. Il patrimonio genetico è mio e nessuno dovrebbe poter precludere l’accesso a informazioni che sono personali nel senso più intimo che si possa immaginare».
Nel Dna, infatti, sono contenute quelle che potremmo semplificare come le “istruzioni di montaggio” di ogni singolo individuo. Lui si è assicurato che il suo campione di Dna fosse distrutto dopo essere stato analizzato.
In molti paesi del mondo le predisposizioni genetiche alle malattie non possono essere divulgate. «Abbiamo clienti in oltre 60 nazioni e offriamo differenti servizi in ottemperanza alle legislazioni regionali», ci risponde via mail l’ufficio stampa di 23andMe. «In qualità di azienda privata, non rendiamo pubblici dettagli più specifici». In Italia, si può solo con una prescrizione medica. «Capisco la logica», commenta ancora Nicola Barban. «Ma non credo che avrei fatto il test se non avessi anche ottenuto informazioni sulla predisposizione genetica alle malattie».
Una rivoluzione?
Gabriele Musumeci, ex ricercatore in biologia genetica e molecolare, oggi genealogista, ci spiega che «quasi solo i paesi di tradizione anglosassone e calvinista permettono l’accesso libero alle informazioni mediche». Per lui, che si accinge a fare il test, siamo di fronte a un’innovazione con una portata che non fatica a definire «rivoluzionaria».
Il primo paragone che gli viene in mente è come è cambiata la società con la massificazione dei personal computer. «Nessuno può ancora immaginare tutte le potenzialità aperte dalla possibilità di sequenziare a basso costo il Dna, ed è normale che i vari governi reagiscano con scelte più o meno conservative».
In ogni caso i sentimenti prevalenti tra tutti quelli con cui abbiamo parlato sono due e contrastanti tra loro. Entusiasmo per lo strumento e per le possibilità di progresso scientifico che apre ma paura tiche come GlaxoSmithKline e Regeneron. Biobank, questo è il nome, mira a sequenziare il genoma di 500 mila britannici per mettere le informazione anonime a disposizione della comunità scientifica. Per accedervi, ci spiega Barban, bisogna comunque dichiarare l’intento della ricerca. «Ad esempio possono negare l’accesso a chi tenta di collegare intelligenza, sessualità e criminalità a una predisposizione genetica». Ma più che la paura di trovare la giustificazione genetica alle discriminazioni, a suo avviso, il rischio grosso è un altro.
Verso un genetic divide
«Al momento gli esami del Dna si effettuano su base volontaria. Significa che gli archivi genetici rappresentano per la gran parte una fascia di popolazione altamente istruita ed economicamente indipendente che vive in paesi occidentali». Il rischio è quindi che si vada a formare una sorta di genetic divide che più avanza la ricerca e più sarà difficile colmare. Inoltre, come ci ripete a più riprese Musumeci, «se l’idea di poter consultare un database che in potenza potrebbe coprire l’intera popolazione mondiale fa gola a qualsiasi scienziato, non bisogna dimenticare che potrebbe anche portarci a una società die, per eccesso di semplificazione e di ottimizzazione delle risorse, usi i dati genetid per incasellare vite e aspirazioni umane».
Distopia eugenetica
La distopia più spaventosa è quella dell’eugenetica. Già in Islanda, per evitare matrimoni tra consanguinei in una nazione di 300 mila abitanti senza cognome, è stato creato un database genealogico con tanto di app. Il rischio incesto lì, è reale e altamente probabile. Così hanno prodotto Islendingabok, una app che permette – accostando i telefoni – di scoprire subito il livello di parentela. «Bump in thè app before you bump in bed», recitava il suo slogan (“prima di entrare nel letto, entra nella app”). Se quel tizio è tuo cugino, in sintesi, è meglio saperlo prima di farci un figlio assieme.
La distopia cinematografia più spaventosa, invece, è quella di Gattaca, un film del 1597 di Andrew Niccol, dove la nuova lotta di classe è tra chi è nato programmato geneticamente (e quindi perfetto) e chi invece è venuto al mondo con un patrimonio genetico naturale. Ma, come chiosa Musumeci, è impossibile fare previsioni. «Il genoma umano è stato sequenziato appena 16 anni fa, l’impatto che avrà sulla società tra una decina di anni è ancora tutto da scoprire». Per ora è solo un business. Con un giro d’affari che cresce esponenzialmente.