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 2017  luglio 21 Venerdì calendario

Aida in esilio. Shirin Neshat come l’eroina di Verdi. «Lontana dal mio Iran, cerco la pace»

ROMA Esordire come regista d’opera nel più esigente dei festival, Salisburgo, col “numero uno”, Riccardo Muti, sul podio dei Wiener, con l’Aida di Verdi e un cast stellare a cominciare da Anna Netrebko nel ruolo del titolo e poi Francesco Meli, Ekaterina Semenchuk, Roberto Tagliavini, Yusif Eyvazov, Dmitry Belosselskiy, Luca Salsi…. Chiunque fuggirebbe a gambe levate. Invece Shirin Neshat, al telefono dal festival austriaco, è entusiasta e carica di energia. Lavora da mesi a questa Aida che si vedrà dal 6 agosto, evento musicale dell’estate. Anche grazie a lei. Perché un’artista con una identità, una storia dice sempre qualcosa di più.
Shirin Neshat, sessantenne molto bella, visual artist, fotografa, regista di cinema, femminista, iraniana in esilio in Usa – l’ultima volta che ha visto il suo paese era il 1996 – porta nell’Aida la sua vita tra Oriente e Occidente, il sentimento dell’esilio che ha raccontato anche nella mostra di ritratti al Museo Correr di Venezia Home of my eye, e il suo sguardo di donna in relazione al fanatismo religioso e politico, tema anche del suo nuovo film Looking for Oum Kulthum dedicato alla più grande cantante egiziana, mito del mondo arabo. «Sì, i miei lavori sono spesso il riflesso della mia condizione personale: la vicenda di qualcuno senza casa, l’essere donna in un contesto di autoritarismo politico...».
Anche Aida? Sarà dunque un Verdi “politico”?
«No. Ma mi piacerebbe mostrare l’altra faccia della medaglia, rispetto all’Aida tradizionale, un po’ razzista. Perché è un’opera scritta per lo più da europei per europei che vivevano in Egitto. Per un mediorientale c’è poco di autentico. Men che meno quell’antico Egitto, l’Etiopia... tutto è troppo barbarico. Voglio mostrare quindi il punto di vista orientale. Diciamo che cultura occidentale e orientale si mescoleranno. Perché Aida parla del Male che vive in tutti noi, e non in alcune culture “barbare”. È universale. Racconta inoltre la celebrazione della guerra, dunque mostrerò quanta sofferenza e dolore produce negli sconfitti. Verranno sottolineati i contrasti, il positivo e negativo, il bene e il male».
Niente elefanti, faraoni, piramidi?
«(ride) Il nostro set design è antico e moderno. Ispirato all’antico Egitto in maniera minimale e intrecciato a immagini video, alcune delle quali mostrano metaforicamente i rifugiati di oggi perché credo sia importante rendere la storia di Aida rilevante rispetto alla nostra. E infatti c’è un altro tema per me molto importante, che mi sta a cuore».
Quale?
«La contrapposizione tra esseri umani e il fanatismo religioso e la tirannia politica, come quella di leader alla Assad, Putin, Trump che tengono in mano le sorti del mondo, le vite di noi tutti. Aida è il tragico confronto tra due donne, Aida e Amneris, che hanno passioni, sentimenti, verità, e un potere che le soffoca. Da un lato c’è la sfera privata, le due donne, il loro amore per lo stesso uomo, e dall’altro la sfera pubblica e politica del re d’Egitto, di Radames, del re d’Etiopia, il padre di Aida. È la vita interiore della donna che si scontra con una ideologia che la controlla e opprime».
Le donne sono dunque le due protagoniste assolute?
«Certo. Ho lavorato molto con donne e sulle donne e ho visto come nella sfera pubblica danno un’impronta diversa dagli uomini, anche quando sono mutilate da un potere soffocante. Aida e Amneris sono centrali: Aida è la principessa in esilio che ha nostalgia per il suo paese e ama un uomo che non può avere perché è il nemico e in più sente la brutalità sulla sua gente che non può aiutare. Amneris ama lo stesso uomo ma neanche lei può averlo perché non è amata da lui. Entrambe lottano per avere ciò che desiderano, si confrontano con la realtà religiosa e politica, cercano costantemente di adattarsi e aggiustarsi... Verdi ha scritto un’opera davvero femminista. Io, certo, mi relaziono ad Aida, alla donna in esilio: conosco il suo dolore per la separazione dalla propria terra, la sensazione di essere una sopravvissuta, la nostalgia, ma anche la determinazione ad andare avanti nella propria vita. Per me è qualcosa di molto toccante. Io ho vissuto la rivoluzione islamica, ho avuto a che fare con i fanatici religiosi che volevano decidere il destino della mia vita. Ho dovuto separarmi dalla mia famiglia, da mia madre e mio padre. È ingiusto perché io non ho fatto niente, proprio come Aida è isolata e privata dei suoi diritti».
E l’amore? Che valore ha?
«È una storia d’amore fantastica: di persone che devono decidere tra l’amore per il proprio paese e quello per un altro essere umano. Quanta dignità e desiderio c’è in Aida e Radames nello scegliere la morte per non rinunciare l’uno dell’altro. E Amneris non è da meno. Lei in fondo è quella che perde tutto, ma perde con orgoglio».
Che le hanno detto Riccardo Muti e il cast di questa interpretazione più filorientale e femminista?
«Sono tutti molti cari. Muti è il mio capo e la sua opinione è importante per me. Sa che sono una neofita dell’opera e che mi sto cimentando con una nuova forma d’arte. Ma questo continuo cambiare linguaggi, sperimentare, vivere tra diverse visioni, anche culturali, mi tiene viva, mi dà energia».
Pensa che Occidente e Oriente, Islam e mondo laico potranno dialogare senza tensioni un giorno?
«Quando giorni fa ho visto le immagini dell’orchestra di giovani iraniani e italiani a Teheran con Riccardo Muti, quasi piangevo. Era la testimonianza potente che la cultura non conosce confini e che le persone sanno godere assieme la bellezza. Sono orgogliosa di essere un’artista, perché l’arte è la migliore ambasciatrice di pace nel mondo. Qui per Aida lavorano italiani, russi, austriaci, egiziani, iraniani. Ci capiamo, dialoghiamo. Mi sento onorata, anche solo per questo».