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 2017  luglio 21 Venerdì calendario

Pino Pelosi, il ragazzo di borgata che uccise il poeta

L’ha ucciso lui. Il ragazzo dal naso schiacciato e dai capelli ricci, che staziona la sera con gli amici a piazza dei Cinquecento dinanzi alla Stazione Termini, sguardo intemerato e strafottente. Un angelo dell’infernuccio di quello slargo, dove gravitano marchettari e nullafacenti, ragazzi di borgata e piccoli delinquenti, spacciatori e curiosi. Vittime innocenti e piccoli carnefici. L’ha ammazzato a colpi di bastone, e poi passandogli sopra con quell’auto su cui è salito, invitato dall’uomo che probabilmente già conosce, almeno di fama. L’automobile, Alfa Romeo GT 2000 color grigio metallizzato è lo strumento con cui il più celebre intellettuale italiano, Per Paolo Pasolini, è andato all’appuntamento con la morte, da Termini all’Idroscalo di Ostia. E lui, l’assassino, è Pino Pelosi, morto ieri a Roma, a 59 anni, dopo una lunga malattia.
La morte ha le fattezze di Pino “la Rana”? Difficile crederlo, eppure sì. L’ha confessato: «Ho ucciso Pasolini». Difficile pensare che l’abbia fatto da solo, eppure chi l’abbia aiutato, chi c’era quella notte a Ostia, non si è mai saputo, e forse non lo si saprà mai. Dopo il delitto Pino guida contromano l’Alfa Romeo GT 2000 sul lungomare di Ostia. Lo fermano i carabinieri. L’auto di chi è? A chi l’hai presa? Prima dice di averla rubata. Non si fa forse così tra quelli di piazza dei Cinquecento? L’auto è l’oscuro oggetto del desiderio. PPP lo sa e con quella vettura sportiva, veloce, aerodinamica, fotografata poco tempo prima da Pino Pedriali, carica i ragazzi e corre verso il mare. L’ha ucciso lui, dopo un rapporto sessuale consumato nell’auto.
Pelosi ha detto che questa è stata la causa scatenante: i modi e le maniere di quel rapporto. Ne ha dette tante di cose e spesso contraddittorie. Ha affermato e smentito, ha aggiunto, circostanziato, e poi negato, cambiato versione. Tenere dietro a tutte le verità dette da Pino “la Rana”è quasi impossibile, si riempie un dossier, una serie di faldoni. Così sono gli atti giudiziari che ne sono seguiti. La verità non è mai venuta a galla, non si è mai saputo perché e come. E soprattutto chi? Può “la Rana” aver ucciso quell’uomo tutto muscoli, scattante, sportivo?
La mattina del 2 novembre 1975, giorno dei morti, una donna esce dalla sua casupola e va verso lo spiazzo dove la notte si fermano le auto con i fari spenti. Le sembra di scorgere un mucchio di rifiuti. Guarda meglio: è un uomo. «Come un gatto bruciato», dirà agli inquirenti. Una poltiglia di polvere e sangue. Pino ribadisce di essergli ripassato sopra più volte. I processi, le indagini aperte e chiuse, poi riaperte e di nuovo chiuse, non accerteranno mai la verità. Un gorgo d’ipotesi, di teoremi, d’indizi, di prove, di fantasie, di immaginazioni. Nessuna certezza. PPP l’hanno ammazzato perché si era interessato degli affari sporchi dell’Eni. Aveva ficcato il naso nelle storie politiche e affaristiche di quegli anni. Il segreto starebbe in Petrolio il romanzo che PPP stava scrivendo e che ora, sostengono alcuni, contiene la chiave del mistero. Un capitolo scomparso sarebbe la prova del delitto politico. Dice di averlo Marcello Dell’Utri. Mafia, Banda della Magliana, trame nere, bombe fasciste, servizi segreti e altro ancora.
Un lungo filo di storie italiane sembra collegare, si dice, la storia di quell’omicidio a Pino “la Rana”, al borgataro che accetta il passaggio di quell’uomo dal viso duro e dalla vocina sottile, che gli propone: «Facciamo un giro?». Pino sa dove vuole portarlo con la sua scattante Alfa GT 2000, a cosa mira PPP. Non si tira indietro, dopo il diniego di due amici. Va con lui. Ha diciassette anni. Un minorenne. Pasolini ama i ragazzi. Non gli uomini adulti del suo stesso sesso. Solo i ragazzini. La foto di Pino che i giornali pubblicano a qualche giorno di distanza lo ritraggono con una giacca e sotto un maglioncino bianco e nero. Poi altre foto nel corso degli anni, mentre invecchiava, senza mai perdere la strafottenza di quello sguardo. Neppure anni più tardi, dopo la sentenza sulla sua colpevolezza passata in giudicato, la libertà condizionata ottenuta nel 1983, i trascorsi per altri reati comuni e un periodo di lavoro alla cooperativa 29 Giugno – quella di Salvatore Buzzi, ieri condannato a 19 anni: destini incrociati.
Oggi che non c’è più, che anche lui è morto, ne sono trascorsi quarantadue di anni da quella notte maledetta. L’assassino del poeta porta con sé nella morte il proprio segreto. Ha scritto PPP: «La morte non è/ nel non poter comunicare/ ma non nel poter più essere compresi».